Vent’anni fa il club nerazzurro andò incontro a una delle più cocenti eliminazioni in Europa, contro la piccola squadra basca per cui già era un onore giocare contro Vieri e Recoba
Questo per l’Alaves è l’anno del centenario. Non ha molto da festeggiare, in realtà, il club di Vitoria-Gasteiz, capitale dei Paesi Baschi: è in zona retrocessione nella Liga e ha già cambiato l’allenatore, da Pablo Machìn ad Abelardo. Forse è meglio affidarsi ai ricordi, alle fotografie impolverate della più grande stagione mai disputata dal “Glorioso”, così come viene chiamato il club, quella che nel 2001 aveva portato la squadra addirittura alla finale di Coppa Uefa, poi persa 5-4 in un’incredibile e assurda partita contro il Liverpool, decisa da un’auto-golden gol, o golden-autogol, mettetela come preferite. Una cavalcata, quella dell’Alaves, cominciata in Turchia, proseguita due volte in Norvegia e che aveva avuto il suo zenit contro una squadra italiana, che invece quell’anno stava attraversando una crisi senza via d’uscita: l’Inter di Marco Tardelli.
Ambiente caldo
Moltissimi giocatori dell’Alaves ammetteranno che la partita della svolta, della consapevolezza e della coscienza di sé era stata quella contro i nerazzurri. “Una volta visto il sorteggio ci siamo detti: va bene, siamo arrivati fin qua, godiamocela prima che finisca”, dirà Oscar Tellez, uno dei due difensori centrali insieme a Karmona. Uno che dopo aver lasciato il calcio è caduto abbastanza in disgrazia, finendo a lavorare come facchino all’aeroporto di Madrid, a Barajas.
L’Inter, però, fa paura solo per il nome, visto che nei mesi precedenti in casa nerazzurra si era consumato lo psicodramma dell’eliminazione dalla Champions nei preliminari per mano del modesto Helsingborg seguito dall’addio di Lippi, col celebre invito ad “appendere al muro i giocatori e a dare loro calci nel culo”.
Al posto del tecnico toscano, ecco Marco Tardelli a governare una rosa mai così oscillante tra onnipotenza e follia, capace di dominare la Roma futura vincitrice dello scudetto e dieci giorni dopo di perdere in casa contro il Lecce. Persino in Europa sono stati più i brividi che le vere soddisfazioni, visto che sia ai trentaduesimi che ai sedicesimi di finale ci sono voluti dei gol in extremis, di Dario Simic e Hakan Sukur, per evitare l’eliminazione contro Vitesse ed Hertha Berlino.
Al momento dei sorteggi per gli ottavi di finale di Coppa Uefa, mentre gli analisti concordano bene o male sul definire l’Alaves un avversario abbordabile, Tardelli nel dubbio non si fida: “A questo punto tutti gli avversari sono forti e l’Alaves è in un buon periodo. Vengono dalla B, giocano su un campetto molto difficile, è un ambiente caldo, ma avremo tempo per pensarci”.
Il “campetto” è l’Estadio Mendizorroza, dove il 15 febbraio del 2001 è in programma la partita d’andata: 25mila spettatori, impianto oggettivamente bollente nelle migliori serate, tipo questa, contro l’Inter. L’Alaves gioca in rosa nonostante i colori sociali siano il bianco e il blu, perché per la Coppa Uefa è stata creata ad hoc questa maglietta, così come ad hoc sarà il completo blu e giallo, tipo Boca Juniors, per la finale contro il Liverpool.
Come detto da Tardelli, è una squadra “che viene dalla B”, nel senso che era stato promosso nella Liga nel 1999: anno da matricola super, con un sesto posto sorprendente, e qualificazione alla Coppa Uefa, competizione a cui mai aveva non solo partecipato, ma che non aveva nemmeno sfiorato.
In una regione dove a farla da padroni nel pallone sono l’Athletic Bilbao e la Real Sociedad, l’Alaves è un po’ il neonato che tutti guardano con simpatia, l’amico sempliciotto che inviti a bere una birra in simpatia. Tanto che un altro soprannome dei tifosi locali è “Babazorros”, ovvero “Mangiatori di fagioli”, per sottolineare innanzitutto uno dei prodotti tipici della zona e in second’ordine per inquadrare uno stereotipo di questa gente dedita in particolare all’agricoltura.
Nel “Glorioso” sono tutti amici, ma davvero. È un gruppo di “bastardi senza gloria” forgiatosi nelle categorie inferiori con i suoi riti, che quando deve muoversi per le trasferte europee lo fa assieme ai suoi tifosi, condividendo i voli. Ogni tanto capitano degli imprevisti, come quando il vice-allenatore Angel Garitano, spedito in avanscoperta a “spiare” il Gaziantepspor prima dell’incontro di primo turno, viene bloccato all’aeroporto di Istanbul. Il motivo? Era stato beccato senza visto d’ingresso della Turchia. Gli ci sarebbero volute ore per spiegare che si trovava lì per guardare una partita di calcio e che lavorava per l’Alaves.
Per il resto l’ambiente è tranquillo. Dopo ogni allenamento i giocatori si ritrovano in spogliatoio per condividere una tortilla e scambiare due chiacchiere. Lo sponsor pure è a chilometro zero: è il consorzio di vini denominato Rioja Alavesa, una zona a sud di Vitoria-Gasteiz rinomata per i suoi “tintos”, i suoi rossi.
In campo l’Alaves gioca a viso aperto: difesa alta, obiettivo fare un gol più degli avversari, pazienza se si corrono troppi rischi. Fin lì si son visti in Coppa Uefa un 4-3 al Gaziantepspor e un 3-1 sia al Lillestrom che al Rosenborg, per dire. L’allenatore è un baffuto signore che, visto così, sembra davvero un impiegato delle poste: José Manuel Esnal, detto Mané, uno che prima dell’Alaves nella Liga era stato solo una stagione con il Lleida, arrivando peraltro penultimo nel 1994.
La rosa ha qualità, seppur nascoste, e in mezzo a quel gruppetto di calciatori anonimi pescati in club minori, spicca un volto dal cognome non banale. È Cruijff: Jordi, naturalmente, figlio di Johan con nome catalano alla faccia del franchismo. Reduce da un fallimento al Manchester United, ha trovato nella tranquilla Vitoria-Gasteiz, una città che ruggisce soprattutto per la squadra di basket locale, il Baskonia, la sua dimensione.
Nel 5-3-2 di Mané, che può diventare più offensivo e trasformarsi in un 4-4-2, l’olandese è il rifinitore dietro al bomber, un altro pescato dal sottobosco (Cordoba, Yeclano, Numancia), che in quella stagione sta segnando a raffica: Javier Moreno Varela, per tutti semplicemente Javi Moreno. C’è anche una vecchia conoscenza del calcio italiano tra i titolari, una meteora passata brevemente dalla Roma, dove a centrocampo non era riuscito a esprimersi al meglio: Ivan Tomic.
Giornata storica
È talmente eccitata Vitoria-Gasteiz per quella partita con l’Inter del 15 febbraio che la settimana prima, per stemperare la tensione, Mané ha portato i suoi ragazzi fuori città per una sorta di ritiro spirituale. “Credo che si deciderà tutto nel ritorno – dice in conferenza stampa – e anche se l’Inter è chiaramente favorita entreremo in campo senza complessi d’inferiorità”.
Nella capitale basca ci si sfrega le mani perché a parte i 25mila presenti al Mendizorroza ci sarà il tutto esaurito nei bar. È senza dubbio l’avversario più prestigioso mai incontrato, Liga a parte, dal “Glorioso”, i cui tifosi fanno a gara nelle ore precedenti alla partita per strappare una foto o un autografo dai vari Vieri, Recoba o Farinos, che sarà passato alla storia nerazzurra come un semi-pacco, ma che all’epoca è reduce da un periodo monumentale al Valencia.
Tra i nerazzurri in realtà tiene banco proprio il “caso-Recoba”, con l’uruguaiano che si è appena tolto un enorme peso dalla schiena, quello della vicenda del suo presunto falso passaporto. “Voglio fare tutto il possibile per essere pronto per la gara di l’Alaves di Vitoria – si sbilancia prima della partenza –. Questo è un momento molto importante, sta per ricominciare la Coppa Uefa, c’è ancora mezzo campionato davanti, sono sicuro che l’Inter potrà avere delle soddisfazioni”.
Sarà proprio Recoba il grande protagonista della serata del Mendizorroza, che inizia comunque in salita per i nerazzurri. Fine primo tempo, calcio d’angolo di Ibon Begoña e Javi Moreno, sempre lui, che finirà la stagione con 28 gol in tutte le competizioni, decolla sopra Simic e incorna all’angolino, tra gli improperi del portiere Frey.
È un’Inter pigra, ma che ha dei giocatori fuori categoria. Due su tutti, Vieri e Recoba, che confezionano il pareggio quasi subito. Fenomenale assist di prima, a occhi chiusi, di Bobo per l’uruguaiano, che si ritrova una prateria davanti (a proposito della difesa alta dell’Alaves): corre per 40 metri inseguito vanamente da due difensori e quando gli si fa incontro il portiere Herrera, al limite dell’area, lo uccella con un facile tocco.
Che la retroguardia non sia il punto di forza dell’Alaves, e che al contempo Recoba sia in una di quelle serate in cui sembra il più forte del mondo, lo si capisce sul 2-1 dell’Inter. Javier Zanetti ruba palla sulla sua trequarti e la dà a destra a Brocchi, che serve “El Chino” dietro le spalle di Geli, il terzino sinistro. Controllo e accelerata verso il centro, lo spazio guadagnato per caricare il sinistro e infine il rasoterra vincente: è tutto fin troppo facile.
“Questa squadra spagnola quando attacca lascia degli spazi incredibili”, sottolinea Fulvio Collovati al commento tecnico. Il terzo gol dell’Inter, infatti, è una specie di miscuglio tra il primo e il secondo. Pallaccia persa a centrocampo da Tellez, recupera Farinos che lancia Vieri nelle praterie lasciate dalla retroguardia dell’Alaves. Il pachidermico centrale norvegese Eggen tenta la trappola del fuorigioco rimanendo inchiodato sulla sua zolla di terra, così è sufficiente per il centravanti fare un passettino indietro prima di correre in avanti. Il portiere Herrera di nuovo esce fino a oltre il limite dell’area, ma viene dribblato e trafitto da Vieri: è il 3-1 al 65′, la partita sembra archiviata così come il discorso qualificazione.
L’Alaves, disastroso dietro, davanti ha comunque più di un’arma, anche a sorpresa: Tellez è stato colpevole su almeno due gol, ma ha un piedino mica male. Calcio di punizione dal limite, tocco di Cruijff per lui, barriera totalmente aggirata e sinistro rasoterra che Frey vede finire in rete.
Qui si vede la fragilità emotiva dell’Inter di quella stagione. Perchè due minuti dopo arriva il pareggio basco con uno dei calciatori-simbolo del “Glorioso”, l’uruguaiano Ivan Alonso, fortissimo di testa pur non essendo un gigante, classica carta giocata da Mané a partita in corso quando c’è da recuperare, infatti è entrato al posto di un centrocampista, Pablo.
E proprio di testa Alonso segna il 3-3, in tuffo, solissimo in area su cross da destra. Non si capisce perché Di Biagio e Cordoba vadano a saltare in due contro il piccolo Begoña lasciando l’uruguaiano libero. L’assist, l’ennesimo di una partita da inesauribile stantuffo, glielo fornisce un terzino romeno arrivato dalla Dinamo Bucarest da totale sconosciuto e destinato a fine stagione nientemeno che al Milan, in una sorta di pacchetto assieme a Javi Moreno: carattere non facile, parlantina fitta, Cosmin Contra in rossonero toccherà alti clamorosi (come questo gol nel derby) e un finale da reietto dopo una rissa con Edgar Davids contro la Juve in un’amichevole estiva.
Il risultato non cambia anche se l’Alaves continua ad attaccare e a rischiare al contempo tantissimo ogni volta che i nerazzurri, sempre meno comunque, tentano i contropiedi in verticale dritto per dritto. “È andata bene all’Inter”, conferma Carlo Nesti, l’altro commentatore della Rai dopo che poco prima del fischio finale Begoña, sempre lui, calcia fuori da posizione pericolosa al termine di un assedio da corner.
Il 3-3 in effetti va benissimo nell’ottica della partita di recupero: certo, l’1-3 sarebbe stato meglio. Il guaio è che il gol di Vieri al 65′ rimane l’ultimo dei nerazzurri in quella Coppa Uefa. A San Siro l’Alaves dopo aver sofferto nel primo tempo viene fuori alla distanza. Gol annullato a Javi Moreno per fallo di Alonso su punizione di Tomic, ma un minuto dopo siluro di Cruijff deviato da Cirillo e a sentenziare destro di Tomic in contropiede dopo sgroppata di Contra, partito dalla sua trequarti. Il pubblico di fede interista non gradisce, qualcuno cerca di andare in tribuna d’onore, altri tirano seggiolini in campo costringendo l’arbitro a una sospensione di sei minuti.
È una delle peggiori serate nella storia dell’Inter, mentre a Vitoria-Gasteiz è festa grande. Festa che, come abbiamo già visto, arriverà fino alla finale persa contro il Liverpool. “Non mi dimetto”, tuona Tardelli, mentre Seedorf, uno dei peggiori in campo peraltro, ammette che “forse si rischia la B”. Michele Serra, storico tifoso interista, su Repubblica, fotografa la situazione: “I numeri sono noti, e terrifici: in sei anni settantanove giocatori acquistati (molti poi ceduti o deceduti, sportivamente parlando), circa ottocento miliardi spesi, una decina di allenatori bolliti in quel brodo fantastico di megalomania e impotenza, e una ridda di anticipazioni agghiaccianti sulle possibili newentry di mediani turchi, allenatori argentini, promesse uruguaiane. Risultati: quasi zero”.
Una débacle a suo modo storica davanti a una squadra come l’Alaves che aveva speso somme infinitamente inferiori. Visto come sarebbe proseguita la stagione interista, con il 6-0 subito dal Milan nel derby, una sorta di premonizione.