Euro 2004, quarti di finale, il portoghese Ricardo prima si toglie i guanti e para un rigore all’inglese Darius Vassell, poi realizza il penalty decisivo. Una notte speciale che ha trasformato l’estremo difensore in un’icona
I portieri non hanno mani ma guanti, di ogni forma e colore, sembrano arti che vivono una vita propria, come il braccio del dottor Stranamore di Kubrick nella scena in cui Peter Sellers, durante un discorso folle, cerca di tenere a freno l’impulso del saluto nazista fino a quando, però, il braccio si tende verso l’alto con la mano stesa in alto, trionfante; Sellers, allora, la blocca con enorme sforzo e la mano cerca di soffocarlo secondo il tragico canone nazista; o come in un vecchio e poco riuscito film di Oliver Stone, The hand, in cui la mano di un disegnatore di fumetti, mutilata in un incidente, va in giro a uccidere persone che l’uomo aveva pensato di ammazzare.
O la mano della Famiglia Addams – in originale è The Thing, La Cosa – che si muove in casa in completa autonomia; siamo dalla parte della sindrome della mano aliena (AHS), un disturbo neurologico che comporta la perdita del controllo di una mano, quasi sempre la sinistra: l’arto fa quello che vuole, è un estraneo al corpo, per cercare di tenerlo a freno vengono adottati guanti atti a impedire la presa degli oggetti. Non guanti da portiere dunque, quelli che proteggono, coccolano, accudiscono, rassicurano le mani.
L’ultima volta negli ultimi quarant’anni che su un campo di calcio si sono viste le mani di un portiere risale al 2004 nei quarti di finale del Campionato Europeo, quando Ricardo Alexandre Martins Soares Pereira, a difesa del Portogallo, si tolse i guanti prima che a battere il rigore fosse l’inglese Darius Vassell – lo fece per distrarlo, dichiarò poi Ricardo, e ci riuscì perché Vassell tirò alla sinistra del portiere che con il corpo e con le mani riuscì a bloccare il pallone.
Il mondo non era, non è, più abituato a vedere le mani dei portieri, ci sfuggono, sono un mistero. Le mani di Ricardo senza guanti apparvero nella loro fragilità, piccole, quasi inermi, rivelando quanto siamo caduchi, se rivedete le immagini avvertirete un senso di smarrimento, come se le sue mani rimpicciolite dai metri della porta, in quella situazione, avessero dichiarato una biblica finitezza. Davanti a Vassell from Birmingham Ricardo sembrava stesse rappando con la canzone di Er Gitano, Pepy e Ion: “Facci vede se si esperto e si campi de c… / t’aspettamo a mani nude oppure a mano armate / so’ parole vere e crude nun l’ho solo rappate / oppure si vo’ respirà chiedice er permesso /ma smetti de giocà / che nun t’è più concesso”: le mani di Ricardo erano nude e armate, parevano inermi, questa fu l’illusione di Vassell, invece si sono dimostrate vere e crude come la realtà; dopo il rigore sbagliato l’Inglese smise di giocare in nazionale.
Lido Vieri, memorabile portiere del Torino di tanto tanto tempo fa, ricordava di come lui usasse dei guanti di lana quando pioveva per non far troppo scivolare la palla, altro mondo, quando le mani erano ancora mani; in quel periodo, siamo negli anni Sessanta, c’era un croato che secondo Lev Jascin, grandiosa leggenda del calcio, era più grande anche di lui: Vladimir Beara. Il portiere slavo aveva una presa potentissima, qualunque tiro veniva stretto tra palmo e dita tanto da essere soprannominato Il ballerino dalle mani di acciaio.
Il pallone era di cuoio, quando pioveva diventava pesantissimo, duro, una roccia grigiastra: le cuciture si gonfiavano e si trasformavano in appigli a cui si aggrappavano i portieri. Il pallone oggi è più imprevedibile, di materiale plastico, non ha la maligna presenza che terrorizzava portieri e calciatori, tanto che molto spesso capitava che, sotto la pioggia, nessuno prendesse la palla di testa per timore di stramazzare a terra.
Le mani di Ricardo, dunque, raccontano il passato ancor più del presente, sono la parte più profonda di un portiere, la sua zona oscura, quella dove ci sono i suoi tremori e le sue certezze, l’es e la logica di ogni uomo. “Tire suas luvas”, togliti i guanti, avrebbe detto Eusebio – il più grande giocatore portoghese (ma a dire il vero era mozambicano di origine angolana) della storia – all’orecchio di Ricardo prima di avviarsi verso la storia.
Eusebio era uno che, nato poverissimo, in Africa, da bambino come pallone aveva stracci di calzini e giornali, non altro; le mani nude gli avranno ricordato i suoi piedi scalzi, forse, il desiderio di riscattarsi contro una nazione potentissima come l’Inghilterra. In quella sera di giugno Ricardo ha mostrato al mondo di avere “mani ostinate”, per usare una immagine della grande poetessa statunitense Anne Sexton, di quelle che fanno resistenza al mondo, quando il mondo si mostra nella sua ostilità; i portieri un po’ somigliano ai pugili, i quali nascondono le mani nei guantoni dopo aver combattuto anche loro i primi anni della boxe con le “nocche dure come mattoni” (Joe Cassano). Eppure le mani possono ancora spezzarsi, rompersi stando dentro un guscio di plastica perché è lì che si nasconde il lato umano, quello che una sera d’estate Ricardo Pereira ha voluto far venire fuori a riveder le stelle.