Football Rail, l’alfabeto delle città del calcio

Ecco un estratto del libro Football Rail, un alfabeto delle città del calcio appena pubblicato dalla casa editrice Les Flâneurs (che ringraziamo)

Barcellona – Il Fantasma della Rambla (di Gabriele Lippi)

Il vento di Levante spira sul Port Vell, così forte da sembrare in grado di spettinare persino la statua di Cristoforo Colombo che guarda il mare e punta il dito a occidente dall’alto del Mirador. La risacca invita a incamminarsi lungo una strada diventata ormai poco più di una trappola per turisti, per farti perdere nel mercato della Boqueria o proseguire dritto sgomitando in mezzo a una folla di curiosi, prestigiatori, fenomeni dei palleggi con la maglietta di Messi, geni della truffa che fanno sparire e riapparire palline sotto tre bicchieri. La Rambla è un’entità che pulsa di una vita tutta sua, bulimica di esseri umani, li inghiotte a manciate di migliaia, confonde e distrae con la sua intensa attività frenetica. Così, all’osservatore meno attento che, prima di infilarsi nella Plaça de Catalunya, si fermasse a mangiare un panino al Burger King sulla sinistra del grande viale, è difficile possa saltare all’occhio una targa in corrispondenza del civico 133. È incastrata tra le mattonelle del marciapiede davanti al ristorante Nuria, tre stelle e mezzo su TripAdvisor, un menù fatto di tortillas, patatas bravas e paellas, hamburger e pizze, in cui la tradizione culinaria catalana viene soffocata dai piatti spagnoli più popolari e da una vocazione alla globalizzazione che, opposta e parallela a un nazionalismo congenito, stira la Ciudad Condal in una tensione perenne e minaccia di strapparla in due da un momento all’altro. “En el centenari del naixement de Josep Sunyol i Garriga presidente del F.C. Barcelona assassinat a Guadarrama el 6-8-1936”, dice la targa raccontando una storia di calcio, ideali e martirio persa tra le pagine della Guerra Civile spagnola.

Sierra de Guadarrama, 6 agosto 1936. Due bandierine della Catalogna fanno capolino da sopra i fari della Ford targata ARM2929 che percorre la strada tra Madrid e Segovia. Al suo interno, un uomo vestito elegante e coi capelli tenuti all’indietro da una brillantina di ottima marca è perso nei suoi pensieri. Sta riflettendo sugli eventi dell’ultimo anno, sugli impegni che lo attendono, sulla grande sfida che sta vivendo la Spagna intera, e di tanto in tanto ne parla col suo compagno di viaggio, il giornalista Pere Ventura i Virgili. Sta persino pensando di fare un passo indietro e lasciare una delle sue attività, perché si è reso conto che è sempre più difficile guidare una grande impresa leader nel commercio di zucchero e derivati, fare il deputato nel parlamento spagnolo ed essere il presidente del Foot-Ball Club Barcelona. Josep Sunyol i Garriga rappresenta la perfetta sintesi di ciò che ogni catalano è o aspira a essere: è un esponente di una borghesia progressista e repubblicana con una forte vocazione indipendentista; ha una casa che affaccia sull’elegantissimo Passeig de Gràcia impreziosito dalle grandi opere moderniste di Antoni Gaudí, dove è rimasta ad attenderlo, tra i tumulti della città, la moglie Gloria Soler; da un anno è stato eletto alla guida del Barça, di cui è appassionato sostenitore da sempre e socio da undici anni. (continua su Football Rail).

 

Rotterdam – La resurrezione di Christian (di Alec Cordolcini)

12 febbraio 2014, porto di Rotterdam. Un autobus turistico viaggia tra container, gru, muletti e bancali con migliaia di scatole colme di pesce. “Qui la globalizzazione è arrivata prima ancora che fosse coniato il termine stesso”, sta dicendo la guida, argomentando come già quattrocento anni fa le navi del VOC (la Compagnia delle Indie Orientali) transitavano sulle acque della Mosa dirette a Delft e pronte a salpare per l’Asia. In Cina il VOC aveva instaurato il suo monopolio e operava come una vera e propria multinazionale ante litteram. Un uomo sul bus ha però smesso di ascoltare. La sua attenzione si è spostata su un operaio impegnato a scaricare faticosamente una serie di casse di metallo. Pelle color ebano, fisico robusto, camminata claudicante e viso semicoperto da un berretto di lana. Uno tra mille, nel principale porto d’Europa. Almeno fino a quando spunta quel sorriso “che ti mette in pace con il mondo”. Il visitatore ricorda di aver letto questa definizione su un numero di Feyenoord Magazine. Un’intervista a Peter Bosz, o forse a Bert van Marwijck. Comunque, lo ha riconosciuto. Ma l’autobus ha ormai imboccato un’altra strada e l’operaio è svanito.

Al visitatore non resta che mormorare un piccolo, silenzioso saluto. “Buona giornata Chris, non ti dimenticheremo mai”.Christian Gyan ha vinto la Coppa UEFA con il Feyenoord nel 2002. In campo, da titolare, perché l’australiano Brett Emerton era squalificato e allora toccava a lui. Non se lo ricorda più nessuno. La sua carriera, dopo quell’8 maggio 2002, è declinata rapidamente. Non era un gran terzino, le sue qualità erano abnegazione, spirito di sacrificio e duro lavoro, fino a quando il fisico regge. Il suo non ha tenuto a lungo, falcidiato dagli infortuni, specialmente nella fase calante della sua traiettoria professionale. È finito a giocare a Rovaniemi, nel paese di Babbo Natale, ma poi è tornato a Rotterdam, perché certe affinità le hai nell’anima. Era nato tra le banchine del porto di Tema, città sulla costa atlantica del Ghana costruita sul sito di un piccolo villaggio di pescatori per espressa volontà di Kwame Nkrumah, il primo leader dell’Africa nera a far ottenere al proprio Paese l’autogoverno, nell’ambito di un vasto progetto politico di sviluppo del Paese. Le acque scure del molo, l’aria salmastra con quell’odore pungente, a tratti insopportabile, e un mondo fatto di ce- mento, sudore e cicatrici più o meno visibili. Per Gyan quel mondo era diventato più grande, più freddo e più moderno, ma nel profondo rimaneva il suo.

Al primo impatto, Rotterdam è un microcosmo che spiazza a causa dell’assenza di punti di riferimento. Questo vale per un frisone proveniente da Heerenveen, e a maggior ragione per un ghanese o una qualsiasi altra persona proveniente dall’estero. Poi ci si abitua, anche grazie al fatto di trovarsi nel primo paese al mondo per livello di conoscenza della lingua inglese, come recentemente certificato dall’indice EF EPI (continua su Football Rail).

 

Saint Etienne  – Bienvenue à Saint Etienne (di Francesco Costantini)

C’è un velo di polvere nera, una patina di sudore, fatica, paura, fame, orgoglio e coraggio, che copre una parte fondamentale della meravigliosa avventura del calcio a cavallo tra la seconda metà degli anni Sessanta e l’inizio degli anni Ottanta. Non c’è mai stato un periodo più coinvolgente ed empatico nel mondo dello sport: idee in libera circolazione, fantasia dentro e fuori dal campo, odore di cipolla soffritta e afrori umani, tutti in piedi su gradoni di cemento, panini sulla cui farcitura era meglio non indagare, brodo bollente in tazza e birra temperatura ambiente, colonna sonora rock e disco-funk, pantaloni a zampa d’elefante e giacchette striminzite, colori mai nemmeno immaginati prima né dopo, basette come zerbini, chiome improponibili. Tifosi per passione e vocazione familiare non certo clienti come li chiamano ora. Talenti esplosivi, personaggi genuini, storie di risalita dal precipizio e ricaduta, peli come raggi di bicicletta (nemmeno le ragazze si depilavano alcunché figuratevi i maschietti…), un mondo crudo e duro ma popolato da un’umanità straordinaria, tatuaggi marchiati dalla vita sulla pelle, zero fighette. Giocatori psichedelici in un’era psichedelica.

Non è un vecchio sporco imbroglio, non è petrolio, è carbone. Miniere, un incubo che sarebbe svanito solo all’inizio del penultimo decennio del ventesimo secolo dopo aver segnato la storia sociale d’Europa, squarciata dal fil rouge del sangue delle esistenze dannate di migliaia di migranti, carne da cannone della rivoluzione industriale. Mentre il mondo sta rivoluzionando le sue regole a suon di musica, mentre il calcio ha cominciato l’elaborazione dello spazio e della velocità, la traslazione verso il futuro, partendo da un posto improbabile come Amsterdam, quattro-cinque squadre espressione di comunità minerarie incidono il loro nome nella storia dello sport più popolare e coinvolgente del pianeta. E del resto era nelle miniere tra nord Inghilterra e sud della Scozia che, nella seconda metà dell’Ottocento e fino alla Seconda Guerra Mondiale, il nascente football aveva trovato la sua linfa vitale.

Il calcio non ha mai sentito parlare della Polonia quando sulla scena compare il Gornik Zabrze. Gornik significa minatore, perché questa cittadina, tedesca sino alla fine della guerra, a due passi dai forni crematori nazisti, è il capoluogo del distretto minerario. Gli inglesi e gli italiani a ruota si accorgeranno dei polacchi di lì a poco, quando Deyna e compagni li prenderanno a pallate sulla strada di Germania 1974. Ma già prima guidato da un attaccante impronunciabile come Wlodzimierz Lubanski – il Zabrze (e chi scopre come si chiamano i suoi abitanti vince un pesciolino rosso) è un incubo per molti. Il Manchester City, ancora senza i petroldollari fuffa degli emiri, dovrà abbatterlo a mani nude per vincere la Coppa delle Coppe 1970. La squadra del voivodato della Slesia è ancora oggi la più titolata del calcio polacco, per andarla a spiare Gaetano Scirea troverà la morte su una stradaccia persa in mezzo al nulla di una pianura insensata (continua su Football Rail).

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