Freddy Adu, il calciatore del Fu Turo

Ascesa e caduta di un fenomeno sulla fiducia che tutti speravano potesse incarnare il sogno americano. Un viaggio al contrario che ha relegato l’erede di Pelé nella periferia più remota del calcio

Eccolo qui il calciatore del Fu Turo. Il predestinato rimasto allo stato pre-, in attesa che il Destino passasse a prenderlo. Quando invece avrebbe dovuto essere lui a andarselo a cercare, il Destino. Signore e Signori, vi presentiamo la storia di Freddy Adu. All’anagrafe Fredua Koranteng Adu, nato il 2 giugno 1989 a Tema, in Ghana, ma statunitense in ogni altro possibile senso. E molto USA è la sua vicenda, caratterizzata da tutte le sfumature dell’American Dream. Comprese quelle meno propagandate, perché non coerenti con una rappresentazione del plot che deve essere totalmente positiva. Dunque guardatela proprio in questi termini, la storia di Freddy Adu. Una panoramica su tutte le sfumature del Sogno Americano. Storia e meta-storia, uno sguardo alla vicenda personale e un altro alla macchina della narrazione che l’ha confezionata. Giusto perché infine possiate chiedervi quale delle due non abbia funzionato: la vicenda personale o il suo disegno?

Tutte le pieghe dell’American Dream

Interrogativi forse troppo complicati da porre all’inizio. E allora riposizioniamoci su un piano più semplificato del racconto. Il Sogno Americano di Freddy Adu, e il modo in cui prende avvio. Una scena perfettamente in linea col copione. La famiglia ghanese che partecipa alla lotteria per una Green Card e la vince. Succede nel 1997, quando Freddy ha 8 anni. E quel colpo di fortuna è l’inizio perfetto di una vicenda che per tutta una prima fase rispetta le scansioni del Dream. Come fossero le tappe di un cronoprogramma. Perché dopo la vincita alla lotteria giungono le precoci affermazioni sui campi di calcio.

Arrivato negli Usa, il giovanissimo Freddy eccelle immediatamente nei cimenti calcistici. Non c’è osservatore che non ne segni il nome sul taccuino, e si tratta di osservatori non soltanto nordamericani. È un dato storicamente poco contestato che nel nel 1999, durante un torneo giovanile disputato in Italia, gli scout dell’Inter notino quel ragazzo capace di fare numeri da fenomeno. E che provino a portarlo in Italia quando Freddy ha 11 anni. Ma in quel momento i genitori rifiutano. Il ragazzo è troppo giovane per affrontare un’avventura che sarebbe impegnativa anche per un professionista adulto. Meglio che rimanga negli Usa a completare gli studi, intanto che la sua formazione calcistica procede.

E procede talmente bene da valergli un contratto da 1 milione di dollari all’anno da parte della Nike. Ciò che equivale a una consacrazione. Perché diventare un testimonial Nike negli Usa di quegli anni significa molto più che strappare un lauto contratto pubblicitario. Come tutti gli atleti che passano sotto l’egida della multinazionale con sede in Oregon, il giovanissimo calciatore statunitense di origine africana diventa espressione di un sistema di valori, di un insieme di rappresentazioni del mondo e di uno stile comunicativo a sé stanti.

È ancora e soltanto una promessa del calcio mondiale, ma ciò non gli impedisce di diventare un pezzo d’Ideologia della Nuova America che Nike plasma reclutando atleti emergenti, specie se appartenenti a gruppi sociali in cerca d’affermazione. Così era stato nel caso dello sport femminile durante gli Anni Novanta, scelto dalla multinazionale come nuovo fronte di emancipazione e affermazione di una società realmente aperta. E di quella apertura lo swoosh si ergeva a griffe ufficiale. La femminilizzazione dello sport Usa, intesa come riconoscimento delle atlete di vertice in quanto portatrici di uno stile autonomo e legittimo non meno che quello dei colleghi maschi, ma anche come affermazione della pratica sportiva femminile diffusa in quanto nuovo diritto di cittadinanza.

Servirà del tempo affinché la sociologia neo-femminista Usa smascheri l’inganno, e scorga in quella rappresentazione delle cose l’ennesimo fronte di sfruttamento capitalista, e dunque la realizzazione di una forma diversa e più subdola della subalternità femminile. Ma nel frattempo la multinazionale può procedere a inglobare nuovi personaggi e nuove storie nel tessuto ideologico di quella narrazione. E la figura del giovanissimo ragazzo giunto dall’Africa grazie alla lotteria della cittadinanza, e che una volta approdato nella terra delle opportunità si trasforma nel fuoriclasse di uno sport ancora non pienamente affermato negli Usa, si presta alla perfezione. Il successo di Freddy Adu sarebbe la realizzazione massima del Sogno Americano declinato attraverso lo sport. E invece la storia del fuoriclasse annunciato che viene dal Ghana permette di scorgere le pieghe meno scontate dell’American Dream, l’insieme delle contraddizioni che vengono omesse per non rovinare il carattere calligrafico della rappresentazione.

Il calciatore del Nuovo Mondo

Dopo aver firmato il contratto con la Nike, Freddy Adu è ufficialmente un fenomeno. Lo è a credito, sulla fiducia. Ma in quella fase nessuno metterebbe in dubbio che il percorso verso la consacrazione possa essere compiuto. Il ragazzo è frettolosamente etichettato come il nuovo Pelé senza nemmeno passare dal via. E intanto la mediatizzazione della sua figura non conosce misure. A 14 anni va in copertina su Vanity Fair e su Sports Illustrated. E si vede riservare ospitate televisive del massimo livello come quelle di 60 Minutes e del David Letterman Show. Certamente tale sovraesposizione mediatica è conseguenza di un talento che in quella fase pare davvero aprigli la strada verso il successo planetario, oltreché dell’appoggio di uno sponsor capace di imporre i propri testimonial-missionari dentro l’immaginario quotidiano statunitense. Ma queste due ragioni non bastano a spiegare tanta attenzione. C’è molto altro. Qualcosa che adesso, grazie alla giusta distanza storica, si può valutare con più chiarezza.

C’è infatti che Freddy Adu viene candidato a essere il calciatore-simbolo del Nuovo Mondo, secondo quelle che possono essere tutte le accezioni possibili di Nuovo Mondo. Giunge da un Paese in via di sviluppo e va a cercare fortuna calcistica nel Paese che, pur essendo la prima potenza politica e economica al mondo, continua a essere anch’esso in via di sviluppo in termini calcistici. Il calcio non ha ancora finito di scoprire l’America, né l’America ha ancora finito di scoprire il calcio. La fase finale dei Mondiali disputata da quelle parti nel 1994 ha dato una spinta, e a livello di base la pratica del calcio attecchisce con una velocità inattesa. Ma manca il grado di vertice, e per il momento non s’intravede.

Non c’è una rappresentativa nazionale competitiva al massimo livello, non ci sono squadre di club che possano rivaleggiare con le potenze europee e sudamericane, non c’è un campionato nazionale in grado di attrarre i migliori talenti al mondo o di produrne. Tutto ciò comporta che gli Usa declinino nel calcio una versione del loro eccezionalismo, come sostenuto più volte dal politologo Andrei S. Markovits. Un Paese nato e sviluppato secondo un percorso sociale e istituzionale diverso rispetto agli schemi europei, nonché propenso a declinare tale diversità attraverso l’invenzione o l’adattamento di sport propri (baseball, basket, football, hockey su ghiaccio) e un atteggiamento massimamente snobistico verso il più popolare fra gli sport europei. Il calcio, appunto. Che da quelle parti conosce un inatteso sviluppo nel settore femminile, tanto da portare la rappresentativa nazionale ai massimi livelli internazionali. Ma che sul versante maschile continua a essere un fenomeno sportivo e culturale di secondo piano. E senza uno sviluppo del movimento maschile, non c’è alcuna possibilità di portare il calcio di un Paese ai suoi massimi livelli.

Durante la fase storica a cavallo fra i secoli Ventesimo e Ventunesimo, quella in cui Freddy Adu avvia un percorso che pare debba portarlo ai vertici del calcio mondiale, gli Usa continuano a essere un Paese calcisticamente in fase di crescita. E non c’è di che meravigliarsi, visto il ritardo con cui il più globale fra gli sport in circolazione è accettato dalla società nazionale. Nei Paesi che sono diventati delle potenze mondiali del calcio è stato necessario un lunghissimo percorso di maturazione del movimento, affinché venisse raggiunta la condizione necessaria per competere ai massimi livelli internazionali. Ma queste constatazioni di buon senso non bastano per fare accettare lo stato delle cose, a chi lavora per lo sviluppo del calcio negli Usa.

Il ritardo è una condizione che non può essere una condanna. Né ci si può permettere che esso venga colmato con una tempistica fisiologica. Bisogna accelerare, bruciare una serie di tappe intermedie senza stare a aspettare la lenta maturazione dei processi, per portare il calcio Usa ai vertici mondiali. E poiché non è possibile bruciare le tappe sul fronte del potenziamento dei club e della rappresentativa nazionale, né pretendere di portare negli Usa i migliori calciatori del mondo all’apice della carriera, non si può che puntare sul campione di levatura globale da allevare in casa. Il nuovo Pelé. Il ragazzo venuto dall’Africa ma proiettato nell’Olimpo dal sistema formativo statunitense.

Tutto ciò si muove intorno a Freddy Adu. Un meccanismo dalle dimensioni esagerate, caricato sulle spalle di un adolescente dl grande talento a cui però non viene concesso il tempo di crescere. Perché di tempo non ce n’è, tutto quanto deve avvenire in modalità fast forward. Ciò che trasforma l’American Dream nella premessa di una grande disillusione.

In giro per il mondo senza un perché

C’è pure una fase in cui Freddy dimostra di avere delle doti. Forse non quelle del nuovo Pelé, ma di sicuro quelle che basterebbero per farne un calciatore di levatura internazionale. Ha anche quel ruolo-non ruolo che appartiene agli artisti del pallone. Gioca infatti da mezza punta, o da attaccante esterno. Cioè le mansioni che richiedono di far sposare una tecnica da artisti del pallone con buone doti da goleador. Mestiere da numero 10, quando la maglia numero 10 apparteneva ai migliori. Ma Freddy è davvero un 10? E che senso ha esserlo, in un’epoca che dopo la liberalizzazione dei numeri di maglia vede assegnata quella casacca a un terzino, e in un paese dove per l’influenza culturale degli sport dominanti la numerazione da 1 a 11 perde significato?

Sono alcuni fra i tanti interrogativi, più o meno oziosi, che si addensano intorno alla storia del ragazzo venuto dal Ghana, quello che era stato pronosticato come il nuovo Pelé ma poi non è riuscito nemmeno a essere Freddy Adu. I primi anni di carriera paiono confermare le enormi aspettative. A 14 anni è il più giovane calciatore a esordire in Major League Soccer (MLS) con la maglia del D. C. United, la squadre per la quale gioca fino al 2006. Transita dal Real Salt Lake City, prima di fare il grande salto in Europa. Che è un passaggio dovuto, per un calciatore che aspiri a essere il nuovo Pelé. Il grande calcio è in Europa, e soltanto confrontandosi coi migliori si può dimostrare d’essere alla loro altezza. E di superarli.

Freddy fa questo salto nell’estate del 2007, quando ha da poco compiuto il 18° anno di età. Lo acquisisce il Benfica, che per averlo spende una cifra molto contenuta rispetto alla quotazione del ragazzo: 2 milioni di euro. E chissà quanta influenza vi sarà stata da parte dello sponsor, in quel prezzo così basso per il trasferimento di un calciatore candidato a essere l’erede di Pelè. Ma al di là di ogni speculazione, rimane che quello sia il momento decisivo. L’Europa, un club della nobiltà mondiale, un campionato di buon livello tecnico che è anche la porta d’accesso al continente. Il futuro tanto atteso inizia a manifestarsi. E proprio lì Freddy dimostra quanto le aspettative su di lui siano smisurate.

La stagione col Benfica scivola via in modo anonimo. E a partire dalla seconda il club encarnado prende a cederlo in prestito fino a che non si giunge alla scadenza del contratto. Freddy trascorre l’annata 2008-09 al Monaco, dove non lascia traccia. Nella stagione successiva torna in Portogallo e viene tesserato dal Belenenses, il terzo club di Lisbona. E nell’ultima annata trascorsa sotto il controllo del Benfica gli tocca spostarsi in due club minori di due campionati periferici: l’Aris Salonicco in Grecia e il Caykur Rizespor in Turchia.

Una discesa a picco dallo status di predestinato a quello di calciatore men che normale. Quanto al futuro, già fu. E il ritorno negli Usa è il segno di una sconfitta profonda, un rovescio che è non soltanto personale ma dell’intera macchina propagandistica. Il Sogno Americano? Tasto reset, avanti un altro. Freddy rimette piede nel calcio in MLS, dove trova un ingaggio coi Philadelphia Union. E sarebbe il caso che lì rimanesse, che prendesse atto di come il suo American Dream sia sfumato.

A volte la cosa più grande d’avere avuto sogni smisurati è il gesto d’umiltà che porta a riconoscere la smisuratezza. E invece no. Freddy, o chi per lui, non si rassegna. Riparte in giro per i campionati esteri. Un tour desolante. Prima in Brasile, al Bahia. Poi in Serbia, tesserato dal Jagodina. E nel 2015 addirittura in Finlandia, ingaggiato dal Kupio Palloseura. Tre esperienze durante le quali gioca pochissimo (addirittura mai in Serbia), e a metà della stagione 2015-16 ritorna per la seconda volta negli Usa. Definitivamente, c’è da augurarsi. Anche se lui non rinuncia alla prospettiva di un ingaggio in Europa, ciò che lo porta a vedersi bocciare dal Sandecja Novi Sacz (neopromossa nella massima serie polacca) e dall’Oskarshamns AIK (Serie C svedese). E col ritorno nel Paese da cui pensava d’aver spiccato il volo verso l’élite del calcio mondiale Freddy deve pure rassegnarsi a non trovare ingaggio presso una franchigia della lega principale, la MLS. Lo tesserano dapprima i Tampa Bay Rowdies, franchigia NASL. E nel 2018 trova un ingaggio presso i Las Vegas Lights, nuova franchigia della United Soccer League. Il prossimo 2 giugno l’ex predestinato del calcio mondiale si vedrà presentare i suoi trent’anni. E, si spera, non un contratto col Circo “Pace e Bene” a girare l’Europa. Per quello, basta così.

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