L’ex portiere della nazionale cilena Roberto Rojas ricorda la notte del 3 settembre 1989 allo stadio Maracanã, quando finse di essere stato colpito da un petardo. Un inganno studiato nei minimi dettagli che rovinò lui e il calcio cileno
Questa vicenda parte da un bengala nascosto nelle mutandine di una ragazza, Rosenery. È una delle storie più vigliacche della storia del calcio, forse la più vigliacca . Una macchia indelebile, un errore pagato a caro prezzo non solo dal principale protagonista, El Cóndor, chiamato così dai tifosi perché sapeva volare da un palo all’altro come un meraviglioso rapace. Rosenery il bengala l’aveva nascosto nelle mutandine per eludere i controlli della polizia all’ingresso dello stadio. Lo si evince dagli atti del processo. E Rosenery con quel dettaglio pruriginoso ha ottenuto una momentanea notorietà e la copertina di Playboy, lui quella notte ha spento l’interruttore della vita sportiva, e non solo.
Si chiama Roberto Rojas, ha difeso per 49 volte i pali della porta della nazionale cilena, dal giugno del 1983 fino al 3 settembre del 1989. Negli stessi minuti in cui perdeva la vita Gaetano Scirea. Che strane convergenze: Scirea è stato l’esempio della sportività, Rojas ciò che di più distante ci possa essere. Per raccontare quella notte è necessario spiegare cosa accadde tre settimane prima a Santiago del Cile.
«Il 13 agosto giocammo in casa contro il Brasile e pareggiammo. Non fu una gara, ma una corrida. Romario, attaccante verdeoro, venne espulso dopo aver preso a pugni Alejandro Hisis e si giustificò con l’arbitro sostenendo che Alejandro aveva tentato di morderlo. Un altro mio compagno di squadra, Raul Ormeno, prese a calci Valdo e Branco, e anche per lui scattò il cartellino rosso», racconta l’ex portiere cileno. Dagli spalti nel frattempo volarono arance, pietre e scarpe. Solo il provvidenziale intervento della polizia scongiurò un finale con rissa da saloon. Risultato alla mano per accedere ai mondiali il Cile avrebbe dovuto vincere al Maracanà, profanare il tempio del Brasile.
Torniamo alla notte del 3 settembre 1989. Allo stadio Maracanã di Rio de Jainero Brasile e Cile si affrontano di nuovo per le qualificazioni al Mondiale 1990. Il primo tempo si concluse sullo 0 a 0, davanti a 160mila brasiliani scatenati. All’inizio della ripresa Careca portò in vantaggio i suoi e nei festeggiamenti ecco apparire la mano di Rosenery, protesa a lanciare il bengala che andò a cadere a pochi metri dalla porta. «Non aspettavo altro, mi gettai a terra, come se fossi stato colpito da un proiettile, e mentre mi passavo le mani sul volto afferrai un piccolo bisturi che avevo sistemato in un’intercapedine dei guanti e mi tagliai la fronte. Zic! Un colpo netto e deciso».
Il volto coperto di sangue finì in mondovisione e i suoi compagni, all’oscuro della macchinazione, comunicarono all’arbitro che non avrebbero più giocato. Avrebbero vinto a tavolino e staccato un biglietto per i mondiali in Italia. «L’avevo combinata grossa, d’accordo, ma in quel momento l’amore per la patria, fino alle possibili estreme conseguenze, prese il sopravvento». L’occhio del grande fratello a quei tempi era pura utopia e le moviole non riuscirono a stabilire che cosa fosse realmente accaduto. «Avevo fregato tutti, e intimamente godevo. Sorridevo assieme ad Alejandro, il nostro massaggiatore, l’uomo che aveva manomesso i miei guanti infilandoci il bisturi incriminato».
Il Condor però non aveva fatto i conti con la foto scattata da un reporter brasiliano a bordo campo, l’unico a immortalare il bengala che terminava la sua traiettoria ad almeno tre metri di distanza da lui. Quello scatto lo inchiodò e quando venne convocato dalla commissione disciplinare della Fifa non ci fu nulla da fare, fu condannato a vita. «Con il calcio ero arrivato al capolinea. Per me fu un dramma, nonostante numerose dichiarazioni di pentimento. Ma fu una catastrofe anche per lo sport cileno». La Fifa infatti escluse la nazionale cilena non solo dal Campionato mondiale di calcio 1990 ma anche da quello seguente del 1994.
Proprio in quei mesi il Cile stava provando a risollevare il capo dopo la feroce dittatura di Augusto Pinochet, la nazione andina aveva riposto nel calcio, lo sport più popolare al mondo, importanti speranze di rinascita. E invece ci volle parecchio tempo per tentare di cancellare una macchia che a distanza di anni continua a essere motivo d’imbarazzo per l’intero Paese. «Avevo 32 anni e quella notte si concluse la mia carriera e buona parte della mia vita. Se aggiungo che giocavo per una squadra brasiliana, il Sao Paulo, potete facilmente rendervi conto di quale calamità sia stato causa».
Oggi Roberto Rojas vive a Santiago, nell’oblio, dimenticato da tutti. «Neppure le scuole calcio mi hanno voluto, non sono un buon esempio per i bambini che si avvicinano allo sport. A distanza di anni penso a quella notte, al sangue che mi coprì il volto, e al pube di Rosenery».
Lei è morta il 4 giugno 2011, nella miseria più totale. La trovarono con il viso devastato dall’alcool, con il corpo congestionato da anni di indigenza, deceduta in una baraccopoli di Rio de Janeiro, soffocata dal suo stesso vomito. «Non ci siamo mai conosciuti di persona, ma la sorte quella notte ha deciso che i nostri destini si sarebbero incrociati in maniera beffarda, avventata e crudele. Il bengala nelle mutandine, che trovata geniale. Non sono un erotomane, ve lo ripeto, sono El Cóndor a cui hanno spezzato le ali». Cóndor come la marca del bengala. Sì, era già tutto scritto.