Nonostante gli stadi vuoti la voce degli arbitri resta invisibile, come rimanesse nella sua solitudine connaturata all’autorità. Il silenzio degli arbitri è comunque un silenzio necessario
Quando gli uomini sono presi da affanno e da oppressione precipitano nella bestemmia o nella trepidezza della preghiera, nel grido prolungato o nel silenzio; le lamentazioni di profeti e infelici sono richieste di soccorso più che proteste contro Dio, acquietato nel suo mistero. “O Dio, non restare muto, non startene in silenzio!” (Sal 83,2), si invoca per ricevere conforto; “Dio della mia lode, esci dal silenzio!” (Sal 109,1), si pretende per ricevere udienza; “Se tu resti muto, io sono come chi scende nella fossa” (Sal 28,1), preghiera in forma di ricatto.
Quanti silenzi ci sono nel mondo e quanti ne perdiamo, alcuni sono così minori che bisogna raccoglierli con pietà come ha fatto lo scrittore Graziano Gala che ha dedicato il suo romanzo d’esordio a due sventurati, uno dei quali è il professore di matematica Lelio Baschetti ritrovato morto dopo sette anni nel 2018, rannicchiato sul piccolo letto del suo appartamento a Venezia in avanzato stato di decomposizione; il primo giorno di scuola del suo ultimo anno di lavoro gli studenti ricordano quest’uomo timido e ironico che, entrato in classe, faceva fatica a parlare, confessò che per tutta l’estate non aveva parlato con nessuno – il silenzio come sudario, l’inferno che brucia la vita e pure la morte.
Ce ne sono poi di silenzi che, in un’epoca così rumorosa, diventano castello sulla rocca, antichissima fortezza inviolabile e appartiene agli arbitri secondo l’articolo 40 sezione 4 comma d.
“Agli arbitri è fatto divieto di rilasciare interviste a qualsiasi mezzo di informazione o fare dichiarazioni pubbliche in qualsiasi forma […] salvo espressa autorizzazione del Presidente dell’AIA. Gli arbitri, previa sempre autorizzazione del Presidente dell’AIA, possono rilasciare dichiarazioni ed interviste sulle prestazioni espletate solo dopo che il Giudice Sportivo ha deliberato in merito alle gare, purché consistano in meri chiarimenti o precisazioni e non comportino alcun riferimento alla valutazione del comportamento tecnico e disciplinare di altri tesserati AIA o FIGC”.
L’intervista della Rai a Daniele Orsato a fine febbraio è stata quasi una epifania italica perché ignoriamo la voce degli arbitri, i loro accenti, le loro pronunce, i loro eventuali difetti; l’arbitro non parla con nessuno una volta che ha fischiato la fine, al massimo saluta calciatori e allenatori, la sua voce sul campo si spegne come Hal 9000, il supercomputer di 2001 Odissea nello spazio.
Nonostante gli stadi vuoti la voce degli arbitri resta invisibile, come rimanesse nella sua solitudine connaturata all’autorità; il silenzio dell’arbitro è estremo anche se sul campo parla tanto, lo è meno dei guardalinee che corrono senza parlare (a meno che non lo richieda il direttore di gara) alzando, puntando e abbassando la bandierina e meno anche degli assistenti al Var. Quello dei guardalinee, forse, è il silenzio di Baschetti, un silenzio trascurato, laterale, più profondo del Dio Abisso di Meister Eckart.
Il silenzio degli arbitri è comunque un silenzio necessario, le loro parole sarebbero rumori simili a comunicati ufficiali e inutili come le interviste ai calciatori e agli allenatori; c’è bisogno che qualcuno, dopo, non parli, è da quel silenzio che vengono fuori la rabbia, la contestazione, le interpretazioni, i sospetti e le recriminazioni. I versi della poetessa tedesca Nelly Sachs richiamano il silenzio e la solitudine dell’arbitro, il quale è
Un uomo in piedi –
Silenzio silenzio silenzio –
nulla più inscrive il sole
e una corona di sonno cresce
intorno a lui
che si è allungato verso l’alto
più in alto
fino alla fine.
L’arbitro non è soltanto il giudice che prova a distinguere il bene dal male, il falso dal vero, sbagliando spesso perché la verità è torbida, confusa dalla velocità ma talvolta persino la lentezza della moviola fatica a trovarla e lui, l’arbitro, tre volte silenzio proprio come il fischio finale, è categoria della ragione. Non appartiene più alla parola ma quando i cieli si spalancano e mostrano a Ezechiele il trono divino, il profeta si prostra a terra e non risponde a Dio che gli parla, preferisce essere annientato dal silenzio e non dal Verbo divino. Dio lo rassicura, Ezechiele continua a starsene zitto, confitto a testa sotto nell’afasia. La sua lotta col silenzio è raccontata con grande finezza dal filosofo ebreo francese André Neher che sottolinea come alla fine il profeta accetta di uscire dal silenzio quando Dio è costretto a minacciarlo.
“Farò che ti si attacchi la lingua al palato – gli dice Iddio, irato – sicché diverrai muto e non sarai per essi un censore, perché essi sono una casa ribelle”.
Se per Neher Dio è entrato nel silenzio dell’uomo per farne la Sua Parola nel calcio avviene il contrario, l’arbitro trasforma la sua parola in silenzio e il suo silenzio diventa, nella bocca degli altri, chiacchiera. In realtà i sovrumani silenzi di Leopardi sono la parte terminale della nostra vita e pure nel calcio appartengono alla fine; il silenzio dell’arbitro ha più rigore etico di quello del minuto di commemorazione che quasi sempre imbarbarisce nell’idiozia degli applausi fino a svanire nel loro rumore.
Il silenzio dell’arbitro, dopo la partita, è quello del settimo giorno, quando le cose sono compiute e altro non c’è da aggiungere; va dunque protetto, nascosto, tenuto lontano dalla logorrea pallonara che illumina tutto con le sue parole al neon. In un breve testo Salvatore Satta scrive.
“Tutte le mie meditazioni si sono risolte in contemplazione di misteri. Ho incominciato col mistero del processo; poi ho trovato il mistero della norma; da ultimo, il mistero del diritto”
Di tutti, il silenzio resta il mistero, più dell’uomo che della parola.