La ballata lenta dell’ultimo gol

È il canto finale di una parte della vita che non sa dove andrà

L’ultimo gol della carriera di un calciatore è come una sala che, al termine della cerimonia, comincia a svuotarsi, la pista resta deserta, i musicisti stanno mettendo a posto gli strumenti e i camerieri, stanchi, portano via dai tavoli le ultime cose. Mauro Bellugi, arcigno difensore dell’Inter, ne segna uno soltanto, famosissimo, nel 1971, ottavi di Coppa dei Campioni contro il Borussia Monchengladbach: rimbalzo del pallone, controllo di petto e tiro sotto la traversa. Fine. In quel caso, però, non c’è la malinconia di una parabola che sta per concludersi come nel gol di De Rossi col Boca nell’agosto 2019. Calcio d’angolo e colpo di testa del centrocampista romano che provoca il boato dello stadio e il molle scivolare verso l’addio pochi mesi dopo. L’ultimo gol è una ballata lenta, è il canto finale di una parte della vita che non sa dove andrà; nella traiettoria c’è il riassunto di un’esistenza, di una carriera che mentre si traccia appare invisibile in quel momento. Sì, è un atto di morte, un gesto serale che racconta come si finisce, non a tutti è concesso e quando accade spesso nemmeno se n’è consapevoli.

Più nessuno t’aspetta

nessuno che t’offra

un rifugio sicuro.

Soffochi di solitudine

cominci ad appassire.

«Allora forza!» – gridi –

«fatemi a pezzi!

Lasciatemi morire!».

I versi crudi e fieri di Gabriele Tinti, raffinato poeta marchigiano, racchiudono la sostanza dell’ultimo gol di un calciatore, quando il gol avviene. Nel maggio 2006 Zinedine Zidane spegne la sua clamorosa carriera in un colpo di testa, come De Rossi, contro il Villareal; dopo, simbolicamente, bisogna però che muoia come calciatore, che sia fatto a pezzi, per riprendere i versi di Tinti – sul campo deve rimanere la sola ombra non altro. Rivera segna il gol decisivo contro il Verona, nel 1979, prima chiudere; in modo dimesso Ronaldo conclude su calcio di rigore, nel 2010, all’Atletico Paranaense; ci sono, poi, gol che diventano tragici come quello di Ludo Coeck, centrocampista belga, lo siglò su punizione in coppa Uefa, nel 1983, contro il Valencia ai quarti di finale, due anni dopo morì a trent’anni in un incidente d’auto per colpa di una pioggia così fitta che pareva essere uscita dalle pagine di Simenon.

Bisogna fissare l’ago della bilancia

la luce dei papaveri allungata contro l’oscurità

imparando a trattenere il mondo

sotto le scarpe.

Scrive la poetessa beneventana Rita Pacilio e un gol, l’ultimo, il mondo ci prova a trattenerlo solo che sotto le scarpe spesso il mondo non c’è più, ti sale sopra e ti schiaccia senza alcuna creanza; non contano nulla, invece, le reti fatte per salutare un campione, sono da operetta, finte, prive di vita. Nell’ottobre 1977 Pelé conclude la sua carriera disputando proprio un’amichevole tra Cosmos e Santos, la partita si disputa in diretta mondiale dentro uno Giants Stadium stracolmo. Pelé segna su punizione nella prima metà della gara ma fu un’esibizione circense non un vero addio.

Più complicato trovare l’ultima parata di un portiere perché potrebbe essere difficile oppure ordinaria o addirittura non farne alcuna; c’è un’atmosfera più intima, appartata, nessuno ricorda il suo gesto finale a meno che non pari un rigore. Ci sono gol che non hanno alcuna luce, tra questi quello di Roberto Bettega nei Toronto Blizzard contro i Chicago Sting, in entrambi i match vincono gli statunitensi e in una delle due partite al minuto settantatré Bettega firma il momentaneo 2-2 quando ancora non sa che la sua carriera, già in limine, sta per concludersi a causa di un incidente stradale che avrebbe avuto in Italia. Non c’è dunque, una sola traiettoria in un pallone che finisce in rete, è una candela che muore nel gelo di una stanza, è l’oscurità che prende il posto della luce.

Filippo Inzaghi quel maggio del 2012 è alla sua ultima partita, consapevole della fine quando, dalla panchina, fa il suo ingresso contro il Novara, il pubblico lo acclama, lui, con la solita faccia imbronciata, comincia a fiutare la zona dove colpire e quando Seedorf lo lancia da solo a rete Inzaghi si porta la palla in avanti col petto e la scaglia tra palo e portiere, correndo subito dopo, baciando tutto il pubblico infine piangendo; in lui i minuti rimasti facevano rumore, l’attaccante piacentino aveva la consapevolezza della malato terminale e perciò fretta di fare gol per chiudere il sipario da capocomico e non da comparsa. L’ultimo gol, in qualche modo, porta con sé non solo la gloria delle partite ma anche i rimpianti delle cose passate che mai più torneranno; per questo somiglia alle severe parole di un sapienziale, lui è il punto che chiude un libro anche quando il libro resta aperto come Dio nella balbuzie di Mosè.

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