Intervista all’azzurra che, dopo aver rifiutato il Real, ha lasciato Firenze per provare l’avventura all’Atletico Madrid e giocare in un campionato dove strutture all’altezza e professionismo non sono soltanto utopie
Una nuova avventura, l’ambizione di affermarsi come professionista, il piacevole peso di un cambiamento culturale. Alia Guagni ha vissuto diverse fasi della Firenze calcistica femminile, conquistando anche un importante ruolo nella Nazionale. Ma è arrivato il momento di cambiare, perché alle porte dei trentatré anni è giusto diventare una professionista, cosa che in Italia non è ancora possibile in tempi brevi. Tra la voglia di lottare in campo per la maglia e fuori dal rettangolo verde per i valori femminili, la nuova colchonera si racconta.
Alia, un anno fa hai detto no al Real Madrid, dodici mesi dopo il tuo sì all’Atlético Madrid. Cosa è cambiato nel frattempo?
Stiamo parlando di due momenti di vita completamente diversi: per me, per la situazione del calcio italiano e della stessa Fiorentina. Anche a livello personale, l’anno scorso non mi sentivo pronta a fare questa esperienza. E poi, probabilmente, nemmeno la squadra mi attraeva così tanto, perché c’era bisogno di un progetto convincente per decidere di fare un salto così importante, per me che ero (e sono) legatissima a Firenze.
Quindi mi stai dicendo che l’Atlético ha un progetto più importante di quello del Real?
È ovvio che il nome “Real Madrid” non lascia mai indifferenti. Però oltre il nome ci sono i progetti. Il Real si stava affacciando al calcio femminile, al di là dell’ambizione e delle potenzialità del club, che sono sotto gli occhi di tutti, il rischio era quello che non fossero immediatamente competitivi. E io ho 33 anni, avevo bisogno di un progetto che mi permettesse di ambire a raggiungere dei successi fin da subito. Premesso che un anno fa credo che non avrei accettato nessuna offerta. L’idea era quella di chiudere la carriera a Firenze.
Poi cosa è successo? Il lockdown e la situazione del Covid hanno influito?
Indubbiamente. Quando ci siamo trovate tutte a casa, lontane dai campi, ho rivalutato tante cose, soprattutto a livello personale, e non solo perché il calcio femminile, che stava crescendo moltissimo, è stato considerato alla stregua di uno sport dilettantistico. Sono subentrate tante considerazioni personali, legate a quella voglia che avevo da tempo di mettermi in gioco lontana dell’Italia. Ho avuto la possibilità di capire quali erano le mie ambizioni, volevo fare un’esperienza che non avevo mai provato, se non d’estate quando andavo a fare degli stage negli USA. Se non l’avessi fatto ora, non l’avrei fatto più. Faccio parte di quella categoria di persone che ha approfittato del lockdown per fare un bilancio della propria vita. Non solo della carriera, perché questa è un’esperienza di vita.
È la prima volta che vai così lontana da casa?
Ai tempi del Firenze, come ti dicevo, approfittavo delle pause estive per andare a giocare in America: l’ho fatto per tre anni. Finivo la stagione in Italia, dopo una settimana partivo e una volta rientrata iniziavo nuovamente a giocare col Firenze. Quando una cosa ti appassiona, non esiste vacanza! In quei mesi sono migliorata molto, perché giocavo con e contro professioniste affermate. Però non avevo mai preso in considerazione l’idea di giocare in un altro campionato europeo, e devo ammettere che la Spagna non era nei miei pensieri.
Adesso, invece, come ti trovi? Hai avuto modo di visitare la città nel tempo libero? Ti seguo sui social e il tuo schema sembra allenamento-casa-studio.
Sì, è vero sto studiando lo spagnolo. È una bella occasione per imparare una nuova lingua. Ho iniziato la preparazione da subito, perché sono arrivata un paio di giorni in ritardo rispetto alle altre. Mi sono immersa al 100%, quindi non ho avuto tempo per andare in giro e visitare la città. E poi c’è stato il problema legato al COVID-19. Nell’ultimo mese, qui ci sono stati tantissimi casi: la situazione è peggiorata e anche la Società ci ha sconsigliato di uscire. Questo dimostra anche la serietà dell’Atletico. Io spero di avere preso la possibilità di visitare Madrid, e di prendermi un po’ di tempo per vivere la città. Per il momento la mia priorità è quella di vivere la squadra. Sono venuta qui con grandi ambizioni.
Oltre alla serietà della società, te la senti di dire che da parte di voi calciatrici c’è una grande attenzione e sensibilità rispetto al tema Covid?
C’è una maggiore attenzione e sensibilità sempre! Siamo donne! (Ride). Scherzi a parte, dopo il lockdown, quando ci hanno dato la conferma che il campionato non sarebbe ripartito subito, ci siamo rese conto che per noi quello poteva essere un grande problema. Inutile che ti dica che molte di noi non possono permettersi di star ferme e non giocare un anno intero. Il calcio femminile, di sicuro, non l’ha vissuto come il calcio maschile. Rischiare il contagio per poi rimanere senza squadra, ritornare in quarantena, non prendere lo stipendio: sono situazioni alle quali una calciatrice pensa in continuazione. Poi chiaramente anche io sono andata in ferie, perché dopo quel periodo serviva recuperare un po’ di pace e serenità mentale, ma con grande attenzione e in luoghi poco affollati.
Quali sono le ambizioni tue e della squadra per questa stagione?
Sono venuta qui a Madrid, perché hanno le mie stesse ambizioni. Vogliono competere subito, vincere, arrivare in alto sia a livello nazionale che europeo. Mi ci sono immersa appieno e lotteremo. Non sarà facile, perché il campionato è molto competitivo, il livello è veramente alto, però puntiamo a vincere. Personalmente, ho fatto questa scelta per fare un passo avanti, volevo vedere dove potevo arrivare. In Champions siamo uscite ai quarti (contro il Barcellona), diciamo che ho già superato quello che era stato il mio punto più alto in Europa, ma la prossima volta faremo ancora meglio.
Dell’Atlético Madrid mi hanno colpito le strutture e lo stadio. Si nota una grande organizzazione
La struttura femminile, dove ci sono anche le giovanili, è stata costruita pochi anni fa. Ora la stanno ampliando, è veramente bella. Il campo dove giochiamo non è, ad esempio, il Franchi da quarantamila persone, però fa comunque il suo effetto. Poi i big match vengono giocati al Wanda e l’atmosfera è davvero bella. Sono molto organizzati sia a livello di strutture che di staff. Mi sono trovata subito molto bene.
Come hanno preso a Firenze il tuo addio? O arrivederci, non si sa mai nella vita
Non è stato semplice, per me e per la città. È stata una scelta complicata. Ti dico la verità, quando parlo mi sento ancora della Fiorentina e penso che questa cosa non cambierà mai, a prescindere da quelle che saranno le mie scelte future. Adesso sono qua e darò il cento per cento e più per l’Atlético. Farò tutto quello che posso per riuscire a fare il massimo, però una parte di me rimarrà sempre a Firenze. Venire qui è stata una scelta di vita. Alcuni mi continuano a scrivere e hanno capito che questo non è un addio, perché Firenze e la Fiorentina, se dipendesse solo da me, sarebbe il mio futuro. Poi ci saranno altre componenti e sicuramente lo vedremo quando sarà il momento. Altri, invece, non l’hanno digerita molto bene, ma fa parte del gioco.
Quando dici “alcuni”, ti riferisci alla società?
Non alla società. Parlo della città, dei tifosi. Con la società ho parlato molto chiaramente e loro hanno capito questo mio bisogno, anzi mi sono venuti incontro e mi hanno supportata. Sono andata via dalla Fiorentina per cambiare campionato, non volevo restare nello stesso Paese.
Sapevo che non avresti scelto un’altra squadra italiana
Non avrei mai scelto una squadra italiana per poi fare una stessa esperienza, non era una cosa neanche valutabile. E hanno capito che la cosa andava al di là del semplice cambio di squadra.
Ti faccio una domanda un po’ indiscreta: c’è anche una ragione economica?
Non l’abbiamo neanche posta su questo piano. Con la Fiorentina abbiamo parlato di tutt’altro, quindi non è stato assolutamente un problema economico. Ma è vero che vado a fare un’esperienza dove ho un contratto di lavoro con i contributi e il resto che comporta, qualcosa che si avvicina molto al professionismo. Quindi è chiaro che, a 33 anni, questo discorso abbia influito molto.
Volevo arrivare lì. Secondo me, è giustissimo
Sicuramente è una cosa che influisce, però stiamo facendo dei passi in avanti anche in Italia. Tante cose stanno cambiando. Chissà che questa mia esperienza qui non possa servire anche ad accelerare questo processo.
A parte la crescita che abbiamo visto al Mondiale, penso che in Italia ci sia un divario a livello tecnico. Secondo te, cosa manca per colmare il gap con le nazionali più forti?
Oltre a quello scatto in più verso il professionismo, ci mancano le strutture. Durante il lockdown ci siamo allenate in casa, non avevamo impianti dove allenarci in sicurezza. Difficilmente una squadra di calcio femminile ha centri propri e questo è un problema, perché non ti permette di crescere e quindi di competere. Ad esempio, qui (in Spagna, ndr) i club hanno sala medica, campi sintetici e in erba, la palestra e tutte le attrezzature a disposizione ventiquattro ore su ventiquattro all’interno dei propri centri sportivi. In Italia quasi tutte le società sono in affitto. Ci sono problemi come gli orari, ad esempio, perché devi incastrare il tuo tempo con quello dei bambini e degli amatori. Poi c’è il problema dei numeri. Bisogna far capire che le bambine, se vogliono, hanno l’opzione di fare la calciatrice. Finché non hai un bacino ampio a cui attingere, difficilmente riesci a competere, poi tocca pescare dall’estero.
Ho visto un video in cui racconti che se una bambina gioca per strada o con i ragazzi viene vista male. Probabilmente è legato a un tema culturale. In America, ad esempio, non è così
Eh sì, il problema è che siamo ancora a questo livello. Qualche passo avanti l’abbiamo fatto, ma non siamo pronti a cambiare. In America frequentavo centri sportivi immensi e in otto campi su dieci ci giocavano le bambine. Se hai un bacino ampio, investi, le fai crescere e le alleni bene, il livello poi sale in tutte le serie.
Ti senti un po’ ambasciatrice in tal senso? Voi calciatrici di questa generazione avete un ruolo importante che quella precedente non ha avuto. Per intenderci, ai tempi di Carolina Morace, nonostante l’impegno, non c’erano gli strumenti che ci sono oggi. Invece tu, Sara Gama, Cristiana Girelli e Barbara Bonansea siete un po’ ambasciatrici anche grazie ai media.
In parte sì, nel senso che questa cosa un po’ la sentiamo, perché abbiamo fatto un determinato percorso. La mia generazione è partita dal niente, poi è arrivata a disputare un mondiale e a vedere le proprie partite in TV. Non è ancora professionismo, ma lo facciamo di professione e quindi abbiamo visto l’inizio di un’evoluzione del movimento. Bisogna fare in modo che questo venga notato da tutti gli italiani, perché è un problema di cultura, come hai detto tu. Purtroppo, non solo nel calcio, ma in quasi tutti gli ambienti la donna fa fatica, deve sempre lottare per ottenere probabilmente un decimo di quello che ottiene l’uomo. Il salary gap è ovunque, in tutti i campi. Quindi sì, in parte ci sentiamo ambasciatrici, perché al Mondiale ci hanno seguito in tanti. Si è aperto un mondo, si sono accorti, adesso sta a noi far vedere che mondo è, quello che si può raggiungere e i valori che portiamo. Da una parte, ci sentiamo un po’ responsabili di questa cosa.
Lo sport ha un ruolo importantissimo nella società mondiale, ora più che mai. Pensa allo sciopero in NBA per la lotta contro il razzismo. Credo che il vostro ruolo faccia la differenza per colmare questo dislivello nella società in generale.
Sicuramente. Ad esempio, stiamo ci stiamo battendo per il professionismo nel calcio femminile, perché sarebbe anche ora che ci venga riconosciuto quello che facciamo. Non parlo di stipendi simili, perché non è quello il nostro obiettivo, e sarebbe fantascienza. Mi riferisco proprio al professionismo. Io lo faccio per lavoro e mi dev’essere riconosciuto come lavoro, che prenda mille, cinquemila o i milioni di euro che prendono i calciatori. Se nello sport al femminile italiano non esiste il professionismo, possiamo parlare di parità dei diritti? No. Le donne fanno qualcosa peggio degli uomini? Non mi sembra. È semplicemente un problema culturale ed è grande, perché siamo anni indietro. Sta migliorando e ci stiamo pian piano evolvendo. Noi dobbiamo fare la nostra parte e lottare come sempre. È un passo che potrà aiutare anche le generazioni che verranno, non solo noi.
Quanto è cambiata la tua vita dal punto di vista delle pubbliche relazioni negli ultimi anni?
È cambiata tanto quando abbiamo iniziato a essere legate ai club maschili. Nel senso che iniziavano a esserci sempre le interviste, le televisioni che davano le partite, gli eventi in cui dovevi andare a ritirare il premio. Prima c’era l’intervista fatta in casa e finiva lì, magari un piccolo articolo da qualche parte e nient’altro. Con il Mondiale è cambiato ancora di più, perché di punto in bianco pare che tutta Italia si sia accorta che esiste il calcio femminile. Siamo ancora ai primi passi, però iniziamo a lavorare tanto sui social con le sponsorizzazioni, cominciamo ad affidarci alle agenzie di immagine. Dico che siamo all’inizio, perché è cambiato per poche, ancora non si può parlare di tutto il calcio femminile e neanche di tutta la Serie A. È una selezione, però è qualcosa che prima era impensabile. Prima non avresti neanche osato metterlo in preventivo una cosa del genere. Io nemmeno lo volevo aprire Instagram, mi sono iscritta perché ho perso una scommessa e adesso è uno strumento di lavoro a tutti gli effetti.
Parliamo della calciatrice. In questi anni, ti sei evoluta come ruolo? Non sono tantissimi esterni che si accentrano, vanno al tiro, difendono e attaccano
Penso che dipenda molto dal fatto che nella mia carriera ho ricoperto praticamente tutti i ruoli. Nella prima esperienza, quella con il Firenze, era praticamente necessario. La nostra non era una squadra organizzata come potevano esserlo la Torres o il Bardolino di quei tempi. Era una squadra che puntualmente tirava fuori quattro/cinque giocatrici forti dal vivaio e lottava. Noi eravamo proprio delle combattenti. All’interno della squadra, ero quella che riusciva ad adattarsi di più e quindi ho sempre fatto praticamente tutto quello che c’era da fare. Se mancava l’attaccante, lo facevo io. Sono stata anche capocannoniere. Se c’era bisogno di fare l’esterno, lo facevo. Ho fatto pure il centrale di difesa per un sacco di anni.
Però, ufficialmente, quale ruolo senti più tuo?
In realtà, per tanti anni non ho mai capito quale fosse il mio vero ruolo. Poi sono tornata a fare il terzino e ti posso dire che con la Nazionale è il mio ruolo.
Aspetta, ti fermo, perché mi hai dato la spiegazione che volevo. Tu sei un esterno, perché non stai dietro in difesa. Spingi, attacchi, ti accentri.
Diciamo che non mi sento soddisfatta se durante la partita non sono riuscita a salire almeno sei o sette volte.
Nel campionato maschile italiano, ad esempio, la tua è una figura molto ricercata. Hanno i terzini bloccati e quindi non sono abbastanza propositivi o hanno gli esterni troppo sbilanciati alla Cuadrado, per intenderci, e quindi non sono equilibrati
Nel campionato italiano femminile, in realtà, come terzino vero e proprio mi sentivo un po’ sprecata, nel senso che non riuscivo mai a esprimermi come volevo, cosa che magari succede in Nazionale. Non mi sentivo mai nelle condizioni di poter fare di più.
Quindi giocherai ancora in questo ruolo?
Sì, qua sono arrivata come terzino, anzi come esterno. Se poi il mister cambia idea, io sono pronta per definizione.
Ti senti già un po’ colchonera?
Sono nella squadra giusta. Come spirito è un po’ come eravamo noi alla Fiorentina. È una squadra che compete, ci crede, ha cuore. Ai vertici ci sono persone che sanno di cosa parlano, perché sono ex calciatrici che hanno vissuto quest’ambiente e fanno di tutto per poterti dare una mano, ti stanno vicino. È una realtà importante che in parte è un po’ familiare. Mi sento di essere nella squadra giusta.
È una squadra che lo spirito l’ha sempre avuto.
Combattivo. Qui si combatte.
Che progetti hai per il futuro? Quando avrai smesso di giocare farai l’allenatrice o preferiresti un ruolo da dirigente?
Ora come ora, ti dico che non voglio fare l’allenatore. Ho allenato per un po’ i bambini, ma non credo che faccia per me. Di sicuro voglio rimanere nel calcio, perché già sarà difficile smettere di giocare. Abbandonare proprio penso che non ce la potrei fare. Come hai detto tu, mi sento un po’ responsabile per quello che succederà nel futuro prossimo e mi piacerebbe poter dare il mio contributo. Giocare all’estero mi servirà tantissimo anche per dopo. È anche uno dei motivi per cui ho scelto di fare questa scelta. Mi farà capire com’è un altro mondo, quello che poi voglio portare in futuro. Mi vedo più dirigente che tecnico.
Per concludere, cosa diresti a una bambina di nove anni che inizia a giocare oggi a calcio?
Di crederci tantissimo, che ha un futuro davanti che noi non avevamo. Ha una possibilità e, se lavorerà bene, potrà veramente togliersi delle grandi soddisfazioni. Quindi lavorare sodo, testa bassa e crederci.
E se dicono che è un gioco da uomini?
Le direi di non ascoltare, come abbiamo fatto tutte. A me è sempre venuto abbastanza naturale. È una cosa per la quale sei nata, quindi vai avanti per la tua strada e non ascolti. Se sono qui e se tutte noi, io Cristiana, Sara, Barbara, siamo qui, è perché non abbiamo ascoltato. Ora è arrivato il momento di farci sentire ancora più forte. Con i fatti, come siamo sempre state abituate a fare.