Instabilità tattica e di organico, un centrocampo stellare, ma una squadra poco eterogenea: l’ultima Mannschaft di Löw non è tra le favorite, ma ha le carte in regola per provare a pensare in grande
“Il calcio è un gioco semplice: 22 persone rincorrono un pallone per 90 minuti e alla fine vincono i tedeschi”.
Dopo la sconfitta ai rigori della sua Inghilterra contro la Germania nel Mondiale del 1990, Gary Lineker ha regalato alla storia del calcio una delle citazioni più famose. In effetti, un punto tutto sommato centrato, visto che la Mannschaft tende ad arrivare in fondo alle competizioni. Specie in tempi recenti. Vincitrice del Mondiale 2014, finalista al Mondiale del 2002 e a Euro 2008. Semifinalista al Mondiale 2006, a quello del 2010, a Euro 2012 e a Euro 2016. In 7 dei 9 ultimi grandi tornei, i tedeschi sono arrivati in zona podio. Il naufragio del Mondiale del 2018, con l’eliminazione nella fase a gironi, ha aperto una crepa che a pochi giorni dall’inizio di Euro 2020, con un anno di ritardo, non è ancora stata del tutto rimarginata. Menzionare infatti la Germania tra le favorite della competizione che prenderà il via il prossimo 11 giugno potrebbe sembrare un azzardo.
Storicamente sembrerebbe un paradosso. Eppure, gli ultimi tre anni per la Germania sono stati i più burrascosi dell’ultimo ventennio. Il sistema ha iniziato a mostrare i propri limiti, peraltro già individuati da Oliver Bierhoff nei mesi che hanno anticipato il Mondiale di Russia. Sia a livello di sviluppo della squadra, citati da quello che potremmo definire il “direttore tecnico” della Mannschaft, sia in termini di organigramma. Nei nove mesi che hanno seguito il fallimento sovietico, la nazionale è andata incontro ad una serie di valutazioni che riviste con il senno del poi lasciano enormi perplessità sull’operato dei manager.
La scelta di riconfermare Joachim Löw, ad esempio. Poche settimane dopo l’eliminazione per mano della Corea, del Messico e della Svezia, la DFB ha annunciato il prolungamento del contratto del CT fino al Mondiale del 2022. Il precedente accordo era valido fino a Euro 2020. Le dimissioni di Löw dello scorso marzo hanno dimostrato che nemmeno l’uomo al timone si sentiva effettivamente pronto per andare avanti per altri quattro anni. Il piano di continuità e progettualità stava spingendosi troppo oltre. Forse sarebbe stato più saggio chiudere dopo 12 anni, malgrado un fallimento.
La sensazione di stanchezza che ha trasmesso Jogi va aldilà del 6-0 incassato dalla Spagna – un episodio probabilmente più unico che raro – dell’1-2 subito in casa dalla Macedonia del Nord e di tutte le altre prestazioni poco brillanti messe in mostra dalla Germania negli ultimi 30 mesi. La necessità di prendersi una pausa sembrava già palese dopo il 2018. Ci sono volute le dimissioni per ritrovare gli stimoli verso Euro 2020, che sarà l’ultimo grande torneo in cui il tecnico di Friburgo sarà sulla panchina della nazionale.
Nei tre anni appena trascorsi, oltre a un senso di incertezza trasmesso dallo stesso Jogi, si sono visti anche turnaround decisionali che hanno minato la stabilità di un gruppo. La forza del CT è sempre stata quella di costruirsi un organico e mantenerlo in pianta stabile, crescendolo come gruppo. Nel post Covid, invece, Löw ha convocato 44 giocatori diversi, a cui si aggiungeranno Hummels, Müller e Günter, tre novità in vista dell’Europeo. Totale: 47. Se da un lato le condizioni fisiche precarie di molti elementi non hanno aiutato a trovare un equilibrio di gruppo, dall’altro c’è stata la sensazione che, rispetto alle annate precedenti, il CT non avesse le idee chiare sulla rosa da comporre.
In questo senso la decisione di tagliare definitivamente Thomas Müller, Mats Hummels e Jérôme Boateng nel marzo 2019 sembrava poter avere una sua logica, soprattutto perché tutti e tre davano la sensazione di aver intrapreso il viale del tramonto. La politica della Germania è arcinota, da sempre. C’era la volontà di accelerare il ricambio generazionale, mantenendo in organico soltanto Manuel Neuer e Toni Kroos per la “vecchia guardia” e impostare una squadra più giovane. Non tutti però si sono rivelati all’altezza della maglia della nazionale. Lo testimonia il ritorno di Müller e Hummels tra i convocati per la rassegna. Decisione corroborata anche dal rendimento stagionale dei due campioni del mondo.
Lecito comunque chiedersi se non avesse senso chiamarli anche per gli impegni di marzo, almeno per trovare un assetto con i nuovi compagni. In fondo il modulo e gli schemi sono sempre stati dei grossi interrogativi dell’ultimo triennio, con continui passaggi dalla difesa a tre alla difesa a quattro, dal tridente all’uso del trequartista. Si è visto ogni tipo di esperimento e ancora nessuno di questi sembra aver prodotto una decisione che possa essere considerata definitiva. Anche per una discontinuità a livello di giocatori impiegati. Insomma, senso di improvvisazione pressoché totale.
Guardando i 26 che giocheranno l’Europeo, la Germania potrebbe anche avvalersi di un discreto ottimismo. Basterebbe pensare al centrocampo e alla trequarti: Kimmich, Kroos, Goretzka, Gündogan, Müller, Gnabry, Sané. Più Werner e Havertz e giocatori affidabili come Neuhaus o Hofmann. Nomi di tutto rispetto che sanno alzare il livello. Fa da contraltare però una difesa magari lacunosa non per i nomi – Hummels e Rüdiger sono una coppia potenzialmente solida, specie alla luce degli ultimi mesi di forma – quanto per l’assetto generale, le distanze con i terzini, l’abitudine a giocare in un determinato sistema. Soprattutto, l’affiatamento per giocare insieme di reparto. Non c’è un ‘blocco’. Non è nemmeno stato costruito.
L’immagine di una Germania che pecca di solidità è in piena controtendenza con il recente passato. L’identità storica del Fußball ha ceduto il passo ad una formazione diversa che ha prodotto calciatori molto più tecnici. Anche così si spiega l’assenza di un “nove” classico o di un difensore centrale con determinate caratteristiche fisiche. Se negli scorsi anni la rosa della Germania è sempre stata particolarmente eterogenea e ciò è stato un punto di forza, quest’anno la squadra di Löw è molto più omogenea nei reparti. Motivo per cui, ad esempio, sembra impensabile rinunciare alla fisicità di Goretzka a centrocampo e sembra(va) complicato vedere una difesa senza Boateng e Hummels.
Tutta questi interrogativi sul lato tecnico vanno ad inserirsi in un contesto globale ancora più confuso. In questo momento la DFB non ha ancora un presidente, dopo le dimissioni di Fritz Keller — che aveva paragonato uno dei suoi funzionari ad un capo nazista. Negli scorsi mesi è anche scoppiato lo scandalo relativo ai fondi intascati dai dirigenti. In passato è finito sulla graticola anche l’ex presidente Grindel, anche per questioni razziste. La federazione è al centro di una bufera e non c’è ancora un uomo forte che possa essere in grado di tenere le redini.
Le dimissioni di Löw intanto hanno tolto pressione alla squadra e all’ambiente della nazionale, soprattutto perché il futuro verso Euro 2024 – il vero obiettivo – sarà con Hansi Flick, il candidato ideale per il post Jogi. Molto più probabilmente in Qatar tra un anno e mezzo vedremo una squadra più forte, meglio organizzata e soprattutto più consapevole. Non perché Flick sia migliore di Löw, la cui eredità è comunque preziosa, ma perché tutti saranno consapevoli di aver voltato pagina. Non si parlerà più di transizione, ci sarà un gruppo, con alcuni che saranno dentro e altri che resteranno fuori. Al momento, il presente è nebuloso. Anche se il talento non manca. Essere “sorpresa” non si addice alla Germania, ma per una volta potrebbe davvero essere il vestito ideale.