L’attaccante francese è protagonista di un documentario uscito su Netflix. Ma Anelka è stato più genio o più sregolatezza?
“Va te faire enculer, sale fils de pute”. Scritto per intero, reso meno volgare dai puntini di sospensione, ma il significato non cambia: “Vaf*******, sporco figlio di put****”. Raramente una copertina di un quotidiano ha provocato tanto sconquasso all’interno di una squadra, di una società, di un Paese intero come quella dell’Equipe il 19 giugno del 2010, una prima pagina che ha fatto storia come tante altre del giornale francese. Anche se in seguito qualcuno avrebbe tentato di smussare i toni, questo va detto: per “Le Parisien” la frase sarebbe stata “Vai a fare in c*** tu e la tua squadra”.
Comunque un messaggio di disprezzo assoluto, spedito da un calciatore al suo allenatore, che tanto aveva puntato su di lui. Raymond Domenech (che nella sua auto-biografia “Tout seul” del 2012 conferma all’incirca la versione” di “Le Parisien”), infatti, voleva vincerla quella scommessa, rendere di nuovo importante Nicolas Anelka, almeno per la Nazionale francese: e invece si sarebbe trovato travolto dagli eventi, umiliato in mondovisione, ridotto a leggio, nel caso più eclatante di sempre di squadra che si ammutina davanti al suo allenatore. Una squadra schierata compatta contro la decisione di rimandare Anelka a casa dopo quelle parole pronunciate durante l’intervallo della partita persa contro il Messico, che aveva sancito l’eliminazione dei Bleus dal Mondiale sudafricano.
Le conseguenze, addirittura a livello politico sarebbero state devastanti, con in prima fila il Ministro dello Sport, Roselyne Bachelot, a parlare di “Una Nazionale dove dei capibanda immaturi comandano su ragazzini impauriti e un allenatore senza autorità”. Tutti colpevoli, insomma, nessuno escluso, ma senza dubbio il simbolo di quel fiasco era stato inquadrato: Nicolas Anelka, ancora una volta sotto i riflettori.
Incompreso?
Pochi calciatori hanno fatto così discutere come Nicolas Anelka. Per qualcuno è stato semplicemente “Incompris”, “Incompreso”, come da titolo del documentario uscito su Netflix. Tecnicamente un ragazzo fuori dalla norma fin da subito, da quando aveva esordito a sedici anni con il Paris Saint-Germain, uno dei prodotti migliori mai usciti dalla celebre scuola/accademia di Clairefontaine, dove tutti lo chiamavano “Nico”, compreso Bernard Mendy, suo ex compagno di squadra: “Nessuno ha mai capito nulla di lui. Anelka voleva solo giocare a calcio, rifare in campo quello che faceva per strada nel suo quartiere; ma i giornalisti volevano che parlasse, i politici che li incontrasse, gli sponsor metterlo sotto controllo. A lui tutto questo non interessava: era semplice, modesto, non ha mai voluto essere una stella come invece molti pensano”.
Sarà, ma Nico se c’è stato da far discutere o da andare sulle prime pagine dei giornali non si è mai tirato indietro. Quando ancora è al Psg, non avendo ancora un contratto professionale, viene carpito dall’Arsenal di Arsène Wenger, che glielo fa firmare, lui sì, un accordo pro, sborsando appena 500mila sterline, a metà del campionato 1996-97: una di quelle operazioni alla Fabregas (o alla Dalla Bona, alla Macheda, parlando di giocatori italiani) che rendevano la Premier particolarmente antipatica all’epoca, perché “scippava” i migliori giovani talenti internazionali per pochi soldi. E se l’inizio è al rallentatore, come normale, il secondo anno di Anelka ai Gunners è spettacolare: scudetto e Coppa d’Inghilterra da titolare, maglia numero 9 sulle spalle, una pantera inarrestabile, tecnica sopraffina e fisico scolpito nella roccia.
Ha appena 19 anni e tutte le big d’Europa gli mettono gli occhi addosso. Sarebbe lanciatissimo anche per il Mondiale che si gioca in casa, in Francia, ma nelle convocazioni lui non appare: “La vecchia guardia ha preferito Dugarry”, si legge. Un giocatore meno problematico, anche se con la stampa il suo rapporto non è idilliaco (ricordate il gol che segnò contro il Sudafrica all’esordio nella manifestazione e l’esultanza con la linguaccia? Ecco, era rivolta alla tribuna stampa): meno talentuoso, senz’altro, ma le stelle della squadra sono altre, Zidane su tutti. È il centravanti francese più forte del momento, Anelka? Probabilmente sì, ma le dinamiche di gruppo hanno bisogno d’altro. Quindi la 9 va al modesto Guivarc’h, e le sue riserve sono Trezeguet e Dugarry, chiuso il discorso: Jacquet avrà ragione, visto che il Mondiale lo vincerà e di Nico si dimenticano tutti.
Solo per un anno, prima che inizi una delle telenovele di mercato più incredibili che si ricordino. L’estate del 1999 è quella di Anelka che deve prendere una sorta di “Decision” alla Lebron James: dove andrà il francese? Si susseguono voci, insinuazioni, bisbigli, conferme e smentite: anche Juventus e Lazio sono implicate nella corsa al ventenne talento dell’Arsenal, ormai rassegnato a perdere il suo centravanti. Il prezzo lievita, da 50 miliardi in poche settimane si arriva a 80, si inserisce anche il Real Madrid, a un certo punto però la Lazio sembra proprio averlo chiuso l’affare. “Al 90% Anelka sarà della Lazio”, annuncia Vincenzo Morabito, l’agente Fifa che sta gestendo la trattativa per il club biancoceleste, alla caccia di un sostituto di Vieri, già preso dall’Inter. Però la firma non arriva, c’è sempre un inghippo con il “clan” che sta attorno al giocatore: due procuratori, un avvocato e due fratelli, nientemeno. Tutti aspetti che fanno alzare il prezzo dell’operazione a cifre stratosferiche, forse inaccessibili, tra cartellino, stipendio e commissioni.
Nico intanto è in vacanza in Martinica, la terra delle sue origini, la terra dei suoi genitori: “La Lazio è un club prestigioso, una squadra di campioni – afferma –. Mi piace Eriksson, è un tecnico che ha fatto bene dovunque, il suo calcio mi sembra adatto alle mie caratteristiche. Ma soprattutto sarebbe bello giocare accanto a Salas, un grande attaccante”. E invece il cileno rimane da solo in attacco, nel senso che alla fine Anelka lascerà l’Arsenal, ma per il Real Madrid. Con quei soldi, 22 milioni di sterline (50 miliardi di lire circa all’epoca), i Gunners prenderanno Thierry Henry, forse il più grande calciatore della loro storia, e risistemeranno il centro di allenamento: non un cattivo affare.
Con i Blancos riesce addirittura a vincere la Champions League, giocando da titolare la finale contro il Valencia. Per cinque mesi non aveva segnato neanche un gol, e in generale la sua stagione è stata molto deludente, piena di contrasti con l’ambiente e allenamenti saltati senza permesso culminati in una punizione pecuniaria: 45 giorni di “squalifica”, con il Real che si rifiuta di pagarlo e non lo convoca per 12 partite. Giusto in tempo per la finale di Champions, peraltro: ma il club gli ha messo al collo il cartello “Vendesi” e quando arriva l’offerta del Paris Saint-Germain non ci pensa un attimo, “Adiòs”. Tanti saluti a quel club in cui al primo giorno di allenamenti nessuno era andato a salutarlo tranne i due camerunesi della rosa, Geremi e un giovane Eto’o, stando al libro di Simon Kuper “The Football Men”.
Un po’ incredibilmente conquista anche l’Europeo con la Francia, stavolta sì che lo convocano, di fatto al posto di Guivarc’h, però non convince, è titolare sempre tranne che nell’ininfluente partita con l’Olanda nel girone e soprattutto in finale contro di noi, dove non entra nemmeno quando c’è da rimontare il gol di Delvecchio. Con Lemerre, il nuovo commissario tecnico, non lega, nel gruppo rimane un corpo estraneo, tanto che (sempre secondo il libro di Kuper) l’allenatore dà del tu a tutti meno che a lui. Un dato di fatto è ineluttabile: a 21 anni Anelka ha già un palmares strepitoso, ma se n’è già andato, non senza polemiche, da tre dei maggiori club europei.
La “Quenelle”
E non finisce mica lì: dopo il Psg, altro addio controverso, prestito di sei mesi al Liverpool, tre anni al Manchester City, due al Fenerbahce, uno e mezzo al Bolton, in uno strano andirivieni dall’Inghilterra, l’unica patria dove davvero il francese ha trovato il suo habitat naturale.
L’ultimo acuto è con il Chelsea, la sua miglior stagione realizzativa (25 reti totali) è proprio con i Blues, quando arriva a un’altra finale di Champions, contro il Manchester United a Mosca. È la partita dello scivolone di John Terry all’ultimo rigore decisivo, il dramma sportivo del capitano che sul più bello perde l’appoggio della gamba. L’errore decisivo è proprio di Anelka, tiraccio centrale che Van der Sar para sotto la pioggia, Cristiano Ronaldo in lacrime a centrocampo, la solita espressione poco sorridente di Nico. L’anno dopo arriverà un altro double, come con l’Arsenal, ma col Chelsea, e la convocazione al Mondiale sudafricano dove finirà malissimo, con l’ammutinamento e gli insulti.
Da lì in avanti, una picchiata inesorabile. Cina, una comparsata alla Juventus dove vince lo scudetto, d’accordo, ma non è presentabile a livello di titolarità, due spezzoni di partite appena in sei mesi: “Voglio fare di tutto per aiutare la squadra a rivincere il campionato ed andare il più avanti possibile in Champions”. E ancora: “Arrivo in un grande club con grandi giocatori. Ho parlato con alcuni miei ex compagni di nazionale che mi hanno spiegato come questo club sia una famiglia e quando sono arrivato ho avuto anche io subito questa sensazione perché mi sono sentito come a casa”.
Anelka ha 33 anni, la carriera ormai è agli sgoccioli, ma c’è tempo per l’ultima polemica. Dopo la Juventus c’è il West Bromwich Albion, si torna quindi in Premier League: dopo aver segnato un gol al West Ham il 28 dicembre del 2013 Nicolas si lascia andare a un’esultanza diversa dal solito, si tocca l’avambraccio destro con la mano sinistra, è un gesto che qualcuno ha già visto da un’altra parte.
Sì, era stato un attore comico francese, Dieudonné, anche attivista politico e negazionista dell’Olocausto, amico di Anelka, finito nell’occhio del ciclone. “Un gesto di solidarietà nei suoi confronti”, glissa l’attaccante, immediatamente bersagliato di critiche persino dallo stesso West Bromwich, specie dopo che uno degli sponsor straccia il contratto col club per quell’esultanza, la “Quenelle”, così si chiama, per la comunità ebraica si tratta di un saluto nazista al contrario. Anelka si becca 80mila sterline di multa e cinque giornate di squalifica, prima che il WBA lo licenzi. Un altro Ministro dello Sport francese, Valerie Fourneyron, su Twitter, lo attacca: “Una provocazione scioccante e disgustosa”. Per la Football Association, la Federcalcio inglese è stato qualcosa di “indecente”.
È l’ultima prima pagina in cui Nicolas Anelka (che già ai tempi dell’Arsenal si è convertito all’Islam cambiandosi il nome il Abdul-Salam Bilal) è stato protagonista. Il ritiro, quasi alla periferia del calcio, allenatore-giocatore del Mumbai City, in India. Un calciatore che pur avendo vinto tanto è rimasto sempre un po’ nell’ombra, e che difficilmente verrà scelto nell’undici ideale delle squadre dove ha militato: o perché si è lasciato male con il club, appunto, pur racimolando numeri ottimi, o perché è sempre stato in secondo piano rispetto ad altri più amati dal pubblico.
Colpa di un carattere difficile? Possibile. Bravura più sua o di chi ne gestiva i trasferimenti? Non c’è dubbio sulle qualità del calciatore, che in campo era capace di lampi da fuoriclasse puro. Ai tempi del trasferimento al Chelsea, però, solo di costi di cartellino Anelka aveva movimentato 115 milioni di euro: all’epoca nessuno come lui, tanto da spingere Wenger a ironizzare su “un ragazzo che ha spostato più soldi di una banca”.