Pedro è programmato per vincere

A 33 anni lo spagnolo è arrivato alla Roma a parametro zero. In molti pensavano che fosse l’esilio neanche troppo dorato di un giocatore che aveva già dato il meglio altrove, invece Pedro ha dimostrato di poter dare ancora moltissimo

Dopo il gol contro l’Udinese, l’ennesimo della sua carriera ma anche il primo in campionato con la maglia della Roma, Pedro Rodriguez si è avvicinato ai microfoni delle emittenti che lo reclamavano con la tranquillità di chi ha già attraversato ogni tipo di situazione, senza scomporsi più di tanto nonostante il capolavoro che aveva risolto una sfida particolarmente complessa. Ha messo in fila le solite frasi d’ordinanza: felice per il gol, felice per la squadra, l’esultanza per la famiglia. Poi, però, ha aggiunto qualcosa che ha spiazzato: «Abbiamo l’obiettivo di vincere sempre, pensiamo partita dopo partita per raggiungere lo scudetto». Non lo ha fatto per concedersi il brivido di una sparata, né per provare a ingraziarsi una tifoseria che si è approcciata con un filo di diffidenza alla seconda stagione con Paulo Fonseca in panchina, nonché la prima dell’era Friedkin. Lo ha fatto, semplicemente, perché Pedro Rodriguez è programmato per vincere.

In una Serie A che sta alzando pericolosamente l’asticella dell’età media delle sue stelle, con i 39 anni di un eterno Zlatan Ibrahimovic che stanno facendo passare i quasi 36 di Cristiano Ronaldo come quelli di un giovane alle prime armi, sono stati forse in troppi a considerare l’arrivo di Pedro alla Roma una sorta di esilio neanche troppo dorato di un giocatore che aveva già dato il meglio altrove.

Che il picco di carriera di Pedro sia lontano è fuor di dubbio, ma è altrettanto indiscutibile che abbia ancora molto, moltissimo da dare. Almeno teoricamente, è giunto a Roma per essere il primo cambio sulla trequarti. Ma il destino ha voltato le spalle ancora una volta a Nicolò Zaniolo, e quasi per caso è nato un reparto offensivo che, nei progetti iniziali, non doveva esistere: Edin Dzeko punto di riferimento centrale, dopo mesi in cui pareva a un passo dalla Juventus, e il duo Pedro-Mkhitaryan alle spalle, entrambi rigettati dalla Premier League ma perfetti per un calcio meno frenetico come il nostro. Reduce da una stagione da sole 23 presenze e 2 gol in tutte le competizioni, lo spagnolo ha colto al balzo la possibilità di tornare a sentirsi protagonista, raddoppiando il bottino realizzativo nel giro di sole nove partite, neanche tutte giocate da titolare.

L’ambizione lo ha sempre animato, sin da quando era bambino a Tenerife: la voglia di imparare qualcosa in più ogni giorno, di affinare il proprio bagaglio tecnico e tattico pur essendo soltanto un ragazzino, senza però perdere l’aspetto ludico del gioco. «Ricordo ancora il mio primo allenatore a Tenerife, Iván Rodriguez: mi insegnò la disciplina e i comportamenti corretti da tenere in campo e fuori, con gli amici e i compagni di squadra. Nella prima fase di un calciatore, questo è quello che conta veramente. Nelle Canarie si dà molta importanza al controllo di palla e al fatto che questa venga mossa con grande velocità. In Spagna in generale si cerca molto il gioco con il pallone anche da molto piccoli». 

A 17 anni, il trasferimento dalle Canarie a Barcellona, per vivere il confronto con i talenti più splendenti della Masia. «Avevo 17 anni e per me fu un cambiamento molto difficile. Ero abituato a vivere un piccolo villaggio a Tenerife e mi sono spostato in una grande città. Ero solo, dovevo conoscere tutti i nuovi compagni. Ho vissuto dei momenti molto difficili, ma è stato un cambiamento che mi ha fatto bene. C’era molta pressione in campo, già nelle giovanili, figurarsi quando mi è toccato entrare in campo per la prima volta al Camp Nou. Ho alzato la testa e c’erano cento mila persone a guardarmi, è stato difficile a livello mentale».

A Barcellona era arrivato su suggerimento di Josep Colomer, uno dei tanti osservatori del club, che lo aveva notato durante un torneo internazionale: Pedro faceva parte della selezione del sud di Tenerife. Colomer era giunto sull’isola per osservare Jeffren e si trovò sotto gli occhi uno dei futuri perni della formazione di Pep Guardiola. Il tecnico catalano è stato fondamentale per la carriera di Pedro: «Se sono diventato un calciatore lo devo alla fiducia che ha riposto in me. Io ho lavorato, ho dato tutto quello che avevo, ma da Pep ho sempre avuto il sostegno necessario. Mi ha insegnato tanto». 

Nel giro di cinque anni, Pedro passa dai campi polverosi della Tercera – «Il mio allenatore mi chiamava “la mascotte” per quanto ero piccolo, mi diceva che aveva paura a farmi giocare perché temeva potessero farmi male» – alla gloria della convocazione per il Mondiale 2010. In mezzo, due titoli nazionali, una Coppa di Spagna, una Champions League e una Supercoppa Europea, quest’ultima marchiata a fuoco con il gol decisivo. In Sudafrica è uno dei protagonisti della Nazionale spagnola che vince il Mondiale. L’ascesa prosegue, vince e segna ancora con la maglia del Barcellona, ma nel corso degli anni il feeling con Guardiola perde di intensità.

Nel 2011-12 soffre la concorrenza di Alexis Sanchez e l’innamoramento del tecnico catalano per Isaac Cuenca, oltre all’utilizzo di Iniesta nel tridente d’attacco, alla luce dell’arrivo estivo di Fabregas. Ritrova gol e centralità con Gerardo Martino, due anni più tardi, in quella che non è certo una stagione indimenticabile per il club. Quando in panchina arriva Luis Enrique e a Neymar e Messi si aggiunge anche Suarez, Pedro finisce inevitabilmente per diventare soltanto il primo cambio. L’addio si consuma nell’estate 2015: 27 milioni di euro più bonus convincono il Barcellona a lasciarlo andare al Chelsea, dopo 321 presenze e 99 gol.

Quando arriva a Londra, Pedro porta in dote 20 titoli vinti con il club blaugrana e una mentalità spaventosamente vincente, amplificata dalla sua diabolica tendenza a mettere lo zampino nelle finali: oltre al già citato gol in Supercoppa Europea, anche i timbri contro l’Athletic nella Supercoppa di Spagna, la rete vitale a dicembre 2009 per portare ai supplementari il duello con l’Estudiantes al Mondiale per Club, la realizzazione nella finale di Champions 2011 contro il Manchester United, la doppietta ancora contro l’Athletic in Coppa del Re nel 2012, e quello nuovamente in Supercoppa Europea contro il Siviglia, l’ultimo in maglia blaugrana per fissare il 5-4 contro gli andalusi al 115’.

Un bagaglio quasi disturbante, ma non c’è squadra che non possa nutrirsi della naturale predisposizione di Pedro nei confronti della vittoria. Sono stagioni con alti e bassi, alla lunga perde la maglia della Nazionale (17 gol in 65 presenze con la «Roja», passando direttamente dalle giovanili alla maggiore, collezionando solamente due gettoni con l’Under 21), ma nel Chelsea vince ancora. Una Premier, agli ordini di Antonio Conte, che costruisce il 3-4-2-1 anche attorno a lui e alla sua capacità di galleggiare tra le linee, sparendo all’improvviso per poi ricomparire alle spalle della difesa avversaria, magari su un filtrante di Eden Hazard. Arriva anche una FA Cup e, soprattutto, l’unico trofeo internazionale che gli mancava, l’Europa League, questa con Maurizio Sarri in panchina. L’ultima stagione, tra problemi fisici, panchine costanti e la rogna della pandemia, è da dimenticare. Sono mesi complessi, quelli dello stop. Pedro è bloccato a Londra, i suoi bambini sono in Spagna. «Per me è molto difficile non vederli. Immagino che in tanti saranno nella mia stessa condizione. Gli dico di rimanere in casa e che mi mancano. Vorrei tanto stare con loro». 

I mesi malinconici di Pedro erano iniziati tempo prima, con i messaggi espliciti lanciati a un Barcellona così diverso da quello del suo passato ma non per questo meno parte del suo cuore. «Se mi chiamano, lascio tutto. Quando è arrivato Neymar ho iniziato a giocare di meno, sono cose che accadono nel calcio ma non ho nulla da rimproverare a Luis Enrique, con me era stato sempre onesto. Restare era la scelta più facile, ero a casa mia, con un ottimo stipendio, ma ho deciso di provare un’altra esperienza. A volte ripenso a quello che abbiamo fatto durante quel periodo e penso che sia un sogno. Il tempo passa così velocemente, di sicuro è stato il momento più importante della mia vita. Abbiamo reso felici tante persone. Io ero lì per aiutare la squadra, non potevo essere migliore di Xavi o di Messi, ma ho dato tutto». 

Alla fine si è accasato a Roma. E non per svernare, come sta confermando il campo. Pedro si è piazzato sulla trequarti, sviluppando una grande intesa con Mkhitaryan e Dzeko, andando a coprire quegli spazi vuoti lasciati dalla tendenza del bosniaco a venire incontro alla manovra. Quando il 9 si abbassa, Pedro parte e sfianca le difese, con un senso del tempo e dell’inserimento che ha avuto pochi eguali nella storia recente del calcio spagnolo: i filtranti illuminanti di Xavi e Iniesta dovevano pur trovare qualcuno pronto a raccoglierli. 

Non c’è però solamente questa dimensione di Pedro da tenere in considerazione. Quando si trova a dover attaccare difese schierate, la Roma può contare sulla sua capacità di occupare i mezzi spazi insieme a Mkhitaryan nel complesso sistema di Fonseca, che ama attaccare in ampiezza con gli esterni arretrati, alzati fino ad arrivare quasi in linea con i trequartisti: uno stile di gioco che utilizzava anche nel 4-2-3-1 utilizzato ai tempi dello Shakhtar, con le ali chiamate a stringere centralmente per lasciare spazio alle discese dei terzini. Dopo mesi di apprendistato, la Roma ora è perfettamente padrona di queste situazioni.

Grazie a questi continui aggiustamenti, la Roma, partita con un po’ di scetticismo, ha indirettamente ribadito che sono queste le stagioni più interessanti da seguire: quelle nate senza gli squilli di tromba, anzi, con una bella dose di diffidenza. L’annata è già anomala di suo per le ripercussioni del coronavirus, il gruppo di Fonseca proverà a continuare a sognare. Pedro no, non è tipo da sogni. È programmato per vincere.

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