Il 19 luglio del 1966 l’Italia perde contro la Corea e viene eliminata dal mondiale inglese. Una sconfitta che passerà alla storia come la “Caporetto” del nostro calcio e che portò alla chiusura delle frontiere nel tentativo di valorizzare i talenti azzurri
Un’edizione particolare, quella del 1966. Un momento importante per l’Inghilterra, a livello calcistico. Tralasciando chi amava i Beatles e i Rolling Stones, due gruppi che in quegli anni fanno della Gran Bretagna l’ombelico del mondo musicale, il 1966 segna un momento fondamentale. I maestri del calcio, o sedicenti tali, hanno capito che non è più tempo di isolarsi. L’ideale torre d’avorio è una fortezza già espugnata, meglio rimettersi in discussione. Quell’anno gli inglesi organizzano la fase finale dei Mondiali, il 30 luglio vinceranno il titolo. Tra le Nazionali accreditate, all’inizio c’è anche quella italiana.
La guida degli Azzurri è Edmondo Fabbri, l’homo novus del calcio italiano, il tecnico che in cinque stagioni ha portato il Mantova dalla serie D alla A. Non giocherà un calcio spregiudicato, il nuovo CT, ma non pratica nemmeno quel catenaccio plumbeo che sembra l’icona visiva di un po’ tutto il pallone nostrano. Per di più, Fabbri può contare su individualità di valore. Un portiere di talento come Albertosi, qualche dualismo a centrocampo (l’eterno conflitto di convivenza fra Mazzola e Rivera), una difesa solida che vede i principali baluardi nell’esperienza di Burgnich, Facchetti e Salvadore, nomi nuovi come Barison, Juliano e Meroni. Attaccanti come Perani e Pascutti. Il più anziano della spedizione ha 30 anni i più giovani, 22.
L’Italia si è qualificata per la fase finale superando Polonia, Scozia e Finlandia. Raggiunto l’obiettivo, il sorteggio sembra premiarla con un girone tra i meno complicati. Alla squadra vengono affiancati il Cile, l’URSS e l’improbabile Corea del Nord. Trapela tuttavia un certo nervosismo, a partire da quell’ «Adesso siamo in guerra» pronunciato dal CT appena messo piede nel ritiro inglese. La stampa mostra scetticismo verso le scelte di Fabbri e le polemiche che precedono il Mondiale non favoriscono la giusta tranquillità. La prima partita, quella contro i sudamericani, è anche la più fortunata, almeno a livello di risultato. L’Italia affronta il Cile, la squadra che l’aveva eliminata nel Mondiale precedente, al termine di un incontro che sarà passato alla storia come la “battaglia di Santiago” per via dell’impunita violenza dei sudamericani.
Stavolta la partita è tranquilla e i valori tecnici fanno la differenza. Vince l’Italia grazie alle reti di Mazzola e Barison, ma il gioco non è granché. Con un’avversaria seria sarebbero problemi. Infatti, tempo tre giorni e i problemi arrivano. È il 16 luglio e al Roker Park di Sunderland l’Italia trova sulla sua strada l’Unione Sovietica. Squadra muscolare e solida ma di non eccelsa fantasia, l’URSS chiude gli Azzurri e domina la partita. Complice la tattica rinunciataria adottata da Fabbri, vincono i sovietici per 1-0, rete di Čislenko nella ripresa. La battuta d’arresto pesa, ma il passo falso non è ancora irreparabile. L’ultimo avversario sulla strada della qualificazione ai quarti di finale è la Corea del Nord. Una squadra di giocatori dai nomi quasi impronunciabili e di “Ridolini”, come li descrive in quel momento Ferruccio Valcareggi, assistente di Fabbri.
Nel 1966 la Corea del Nord è un Paese non riconosciuto dall’Occidente, una realtà geografica situata sul 38° parallelo che ancora non si è ripresa dalla guerra civile degli anni 50. Il vero punto di forza della squadra, oltre alla compattezza, è l’orgoglio nazionalista. Lo stesso sentimento su cui fa leva il leader politico Kim Il-sung, richiedendo alla sua Nazionale almeno una vittoria di prestigio. Un aspetto di cui non tiene conto lo staff azzurro, falsamente rassicurata dalla tecnica in apparenza approssimativa degli avversari. Peraltro, il giorno prima di Italia-URSS, Cile-Corea del Nord è finita 1-1, dunque almeno un punto la squadra se l’è garantito e si può perfino giocare la qualificazione.
La città di Middlesbrough, che è di base operaia, prova simpatia per la Corea del Nord. La working class inglese che assiste alle partite del girone dell’Italia ha dunque scelto da che parte stare. Anche questo aspetto, diciamo così, “ambientale”, sarebbe da non sottovalutare, ma molti, troppi, continuano a pensare di avere a che fare con “Ridolini”, non con una squadra vera in grado di sostenere ritmi di allenamento durissimi. Il 19 luglio all’Ayresome Park di Middlesbrough, i ventidue di Italia e Corea del Nord scendono in campo per la terza e decisiva partita del girone.
In Italia sono le 19,30 di un martedì sera che a modo suo farà la storia del nostro calcio. Edmondo Fabbri decide ancora una volta di cambiare, ma commette un errore grave, che di fatto regala un uomo agli avversari. Viene schierato in campo Bulgarelli, sia pure con un ginocchio malandato, in un’epoca in cui non esistono sostituzioni, se non quella del portiere. La partita comincia e gli italiani accendono la tv, convinti di assistere a una vittoria facilissima. Almeno l’inizio della partita lascia in effetti ipotizzare un trionfo in scioltezza.
Perani spreca tre occasioni in pochi minuti, un po’ per i riflessi del portiere Lee Chan-Myung, un po’ per errori di mira e molto per l’atteggiamento di sufficienza. I minuti passano e i coreani, che all’inizio sembravano in balia degli avversari, iniziarono a prendere coraggio e a far valere il loro dinamismo, unito a una tecnica che non si rivela poi così limitata, come era sembrata all’inizio. Poco a poco, lo stadio di Middlesbrough si trasforma in un luogo apertamente ostile agli italiani, incapaci di arginare la velocità con cui i coreani fanno girare la palla e la testa a presunti campioni inarrivabili.
Al 35’ del primo tempo, il ginocchio di Bulgarelli cede nel contrasto con un avversario, lasciando la sua squadra in dieci. Siamo ancora sullo 0-0 ma la tegola suona come un fosco presagio. Passano 7 minuti, nei quali sono ancora i coreani – in superiorità numerica – a giocare meglio, e al 42’ finisce di fatto il Mondiale degli italiani. Su un rinvio della difesa asiatica la palla giunge a Pak Doo-Ik, che dal limite dell’area, leggermente decentrato, incrocia alla destra del portiere avversario. Albertosi fa quel che può su quella conclusione forte e profonda, ma la passa finisce in fondo alla rete.
Il telecronista Nicolò Carosio rimane quasi senza parole nel descrivere l’azione. Per anni si dirà che il killer dei 10 italiani in campo fa il dentista di professione. Un’imprecisione che nel farsi scherno degli italiani si è trasformata in beffardo senso comune. Pak-Doo-Ik ha in effetti la qualifica di dentista, ma di fatto non esercita. È insegnante di ginnastica e più tardi, nel 1976, sarà commissario tecnico della Corea del Nord alle Olimpiadi di Montreal. Il perfetto diagonale del “dentista” pone fine alla partita con un tempo d’anticipo. La ripresa è la riproposizione fedele del “vorrei ma non posso” di chi rappresenta il tricolore ai Mondiali d’Inghilterra. Gli asiatici potrebbero perfino raddoppiare in un paio di occasioni. Finisce 1-0 per la Corea. Il seguito è tipicamente italiano, tra accuse reciproche, ipotesi di complotto prive di fondamento e lanci di pomodori ad accogliere la spedizione italiana al ritorno da Middlesbrough.
Il 19 luglio 1966 diventa così sinonimo di Corea e Corea equivale a sua volta a vergogna sportiva. La conseguenza della sconfitta è la chiusura delle frontiere ai giocatori stranieri. Chi già gioca in Italia senza avere passaporto italiano può anche restare, ma da quel momento l’imperativo categorico della Federazione sarà quello di valorizzare soltanto i talenti indigeni. Certe figuracce non devono accadere più, si dice ai piani alti del Palazzo. I calciatori stranieri torneranno a giocare in Serie A soltanto nell’estate del 1980, al termine di un’autarchia calcistica lunga 14 anni. Italia e Corea (del Sud, stavolta) si incontrano di nuovo in occasione dei Mondiali nippo-coreani del 2002. 36 anni dopo il Mondiale inglese l’Italia riesce a perdere ancora una volta, ma nello specifico c’è una significativa differenza. Il 19 luglio del 1966 l’arbitro non ha colpe. Quel martedì di oltre mezzo secolo fa gli italiani fanno tutto da soli. Non serve mica Byron Moreno per rimandarli a casa con l’imbroglio.