Stiamo dando troppo peso ai direttori sportivi?

Rilasciano interviste, scrivono biografie, riempiono pagine di giornali, vengono salutati con lo stesso entusiasmo che si riserva a un fuoriclasse. I ds sono ormai diventati delle rockstar

Scrivono libri scandendo solennemente il proprio metodo, come Monchi – e si è capito ormai quanto porti sfortuna: Ibra dopo il suo è andato in declino, Mazzarri e Allegri dopo i loro hanno ottenuto un esonero -, vengono accolti come campioni dai tifosi (Marotta), si prendono la ribalta delle presentazioni (come Paratici fece in quella di Cristiano Ronaldo), rilasciano interviste alla Hemingway (Walter Sabatini), vengono paparazzati tra gelosie di presidenti vecchi e nuovi (Petrachi), dietro di loro si muovono leggende (Tare). I direttori sportivi, ormai, sono le vere rockstar del calcio, senza di loro non si muove foglia e se si aprono cicli di successo spesso lo si deve a loro. Anche se giornali e commentatori fanno ancora finta di niente, se non l’ottimo Gianluca Di Marzio (bellissimo il suo ciclo di interviste per Sky ai dirigenti più importanti della serie A) e Walter Veltroni.

Sapete, ad esempio, che dietro al Leicester dei miracoli di Claudio Ranieri c’è Steve Walsh? Profondo conoscitore di calcio, uno che i campi inglesi e irlandesi li ha setacciati per decenni, che al Chelsea ha “scoperto” Drogba e portato Zola e che nella squadra capitanata dal mister testaccino che ha realizzato la favola più bella della storia del calcio ha saputo scovare Vardy, Mahrez e Kanté. Incredibilmente ignorato all’estero, ha fatto poi le fortune di quell’Everton che a ridosso delle big fa l’ammazzagrandi (ma è stato mandato via prima di vedere i frutti del suo lavoro), ed è vittima, fuori dall’isola britannica, dello stereotipo dell’allenatore-manager, eccezione che fu incarnata solo da Alex Ferguson (che in realtà per il lavoro di campo assumeva allenatori veri e propri, compreso Queiroz, uno che ha allenato Sporting Lisbona, Real Madrid e Portogallo), visto che in Inghilterra di cosiddetti director of football ce ne sono a bizzeffe. Walsh ora è disoccupato e si fa fatica a capire come nella nostra serie A non si lancino su di lui.

Va detto però che dalle nostre parti i ds sono di altissimo valore e che come Monchi dimostra, da fuori a volte non si riesce a incidere come si vorrebbe nei dedali di mercato spesso oscuri del nostro mercato, fatto di sante alleanze, anche per i tempi più stretti che si concedono qui ai dirigenti. Quel concentrato iberico di furbizia, messa in scena e abilità nelle trattative a Roma, patria del disincanto, è diventato cialtronismo. Il “ci vediamo al Circo Massimo” è diventato presto un bicchiere di birra bevuto sprofondato in una poltrona con sguardo perso, nell’area ospitalità dell’Olimpico. Meglio è andata a Macìa, curiosamente poi successore di Walsh al Leicester, che ha aiutato Corvino e Pradé – essenziale, qui da noi, che ci sia qualcuno che guidi chi arriva da fuori – a costruire la miglior Fiorentina dell’era Della Valle.

Fuori abbiamo sempre progetti lunghi, qui è un successo superare i 1000 giorni, anche se Napoli, la Torino bianconera, Firenze e Roma sponda Lazio sono felici eccezioni.

L’epica dei grandi cicli di squadre che hanno unito bilanci floridi a bacheche piene, all’estero, si lega più ai dirigenti che ai pur fenomenali allenatori o giocatori passati di lì. Chiedete a un tifoso del Borussia chi sia Michael Zorc. Gli si illumineranno gli occhi, vi diranno del centrocampista che fu bandiera dei gialloneri che vinsero una Champions e un’Intercontinentale a fine anni ’90 per poi affrontare 20 anni dietro la scrivania della sua squadra, diventando leggenda, tra l’intuizione Klopp e una generazione di fenomeni sul campo.

E anche all’Atletico Madrid la venerazione per Diego Simeone non sminuisce il rispetto profondo per José Luis Caminero – vita e curriculum da film, tanto che Almodovar gli vale anche un posto nell’Internet Movie Database, avendolo Pedro inserito con un dribbling a Nadal nel suo Carne Tremula, e in più un arresto per droga poi rivelatosi “fumo” negli occhi -: è lui che ha costruito, col presidente Cerezo, quel miracolo ora ottimamente proseguito da quel geniaccio che viene dall’Eccellenza italiana e da una carriera di bancario, Andrea Berta. All’Ajax si è parlato molto di Marc Overmars, discontinuo e pigro come giocatore, determinato, cinico e stratega raffinato come dirigente, capace di tradire il modello olandese rimanendo nella tradizione, sorta di gattopardo che ha saputo superare, nella strutturazione societaria, sia Van Gaal che sua maestà Crujiff, scoprendo De Ligt e De Jong per un tozzo di pane, per tacere degli altri compagni.

Storie così in Italia si fan fatica a trovare: per colpa di tifosi esigenti e immemori della storia delle loro squadre, che impediscono, se non a Sartori dell’Atalanta (e prima all’allievo di Italo Allodi, Pierpaolo Marino, forse il miglior ds degli ultimi 30 anni), di operare come gli illustri colleghi stranieri, tra cessioni illustri e progetti a lungo termine.

Interessante la parabola di Paratici, apparentemente portatore d’acqua per anni, ma che è cresciuto alla scuola di Marotta fin dai tempi della Samp e che è stato la vera anima dei colpacci in casa Juve, da Tevez a Ronaldo. Fabio è un dirigente moderno tra statistiche e contabilità, a differenza del buon Beppe che è il più classico ds di lotta e di governo, di relazioni e di alleanze, capace di parametri zero da urlo (Paratici per Ramsey ha dovuto tirar fuori 10 milioni di euro l’anno) ma anche di un’area di interesse che lo portava anche a stabilire le strategie altrui (Sassuolo docet). Ma di Beppe, e lo scopriranno nella Milano nerazzurra, non va dimenticata la sconfinata competenza calcistica, fin dall’inizio degli anni ’80: nel miracolo Varese di Fascetti la mano più importante è la sua.

La sua bella presenza, la capacità di giocare con le parole per nascondere i suoi obiettivi, la sfacciataggine con cui ammette la muscolarità delle sue azioni – “sì, mi interessano tutti e mi rendo conto che questo può alzare i prezzi” – rendono invece Paratici più vicino al modello Ferguson che a quelli citati. Sa comprare bene, deve dimostrare di saper vendere altrettanto (e Cancelo e Douglas Costa e forse Dybala ci diranno subito di che pasta è fatto). Depistatore raffinatissimo, ha rapporti buoni con tutti ma non è davvero legato a nessuno.

Chi vende come nessun altro è Igli Tare. Ds per caso – “credevo che Lotito fosse pazzo quando me lo ha proposto” – è uno che in Germania ci è arrivato letteralmente a piedi per inseguire il suo sogno da calciatore. Si narra di appostamenti in mezzo ai campi – forse per il passato da giardiniere – per prendere un giocatore, di una fitta rete di osservatori in incognito (ex compagni, amici che dragano i campi di tutta Europa pagando il biglietto, per non svelarsi), di un’ossessiva capacità di esaminare ogni materiale video che gli arrivi a tiro. Lui guarda tecnico, fisico e carattere, il resto è mancia. Compra a pochissimo, vende a tanto, se dai a un suo giocatore un paio d’anni scopri che non sbaglia letteralmente un colpo: alla Lazio ha messo le tende (contratto di 4 anni) e ha trovato la sua dimensione. Potrebbe essere lui lo Zorc o l’Overmars biancazzurro se il budget di Lotito aumenterà.

Altro che si è legato profondamente a un club, il Napoli, è Cristiano Giuntoli: forse il più bravo e sottovalutato. Come Tare capace di tener testa a un presidente con un carattere strabordante, ha capito di dover lasciare la ribalta al suo capo e sa essere un perfetto anello di congiunzione tra campo e società. Lavora a stretto contatto con l’allenatore – Sarri e Ancelotti, pur diversissimi, ne hanno parlato benissimo -, ha fiuto da vendere come dimostra l’affare Fabian Ruiz, ma anche quello Milik, proprio nel momento più difficile, quando c’era da sostituire Higuain. Non perde mai la calma – anche se si favoleggia di sue liti rocambolesche con giocatori che hanno rifiutato una cessione – e sa lasciare la scena ad altri, che siano allenatori o presidenti. Deve ancora dimostrare di saper stare al tavolo dei grandi, con trattative con le big d’Europa, ma lì serve anche il placet di Aurelio De Laurentiis “che mi tratta come un figlio”.

Alla Roma arriverà Petrachi: a Torino ha fatto benissimo, ritiratosi da giocatore ha imparato da Sabatini e Pieroni, da N’Koulou ad Aina in granata ha portato parecchi ottimi calciatori a pochissimo. È uno alla Pradé o alla Gerolin: fiuto per i giovani, capacità di scoprire chi va rilanciato, con un occhio lungo per gli stranieri. A Roma si troverà in una situazione difficile, ma la sua seraficità e apparente freddezza potrebbero aiutarlo. Di sicuro saprà capire quanti degli acquisti sbagliati di Monchi potranno diventare “giusti”. Vende a peso d’oro, e di sicuro questo a James Pallotta piacerà: epici i quasi 30 milioni strappati per Maksimovic al Napoli, per Zappacosta quintuplicò il valore per regalare un (ingiustamente) panchinaro al Chelsea. E’ lui che compra Belotti e a momenti riesce a venderlo per 110 milioni al Real. Un mago, il buon Gianluca.

La vecchia guardia, infine, non molla: Rocco Commisso dovrebbe far fuori Pantaleo Corvino, mentre Walter Sabatini – che ora potremmo ritrovare a Bologna con un allenatore come Mihaijlovic che sa cavar sangue dalle rape come pochi altri, l’ideale per un ds come lui – forse ha il solo limite di essere uno da squadra media. Entrambi sono tentacolari, workaholic, sempre alla ricerca dell’occasione e della plusvalenza. Drogati dalla trattativa ancor prima che dal progetto tattico e sportivo, hanno un rapporto erotico ed egotico con il calciomercato. Comprare bene è quasi più importante che comprare giusto (Torosidis a Zeman, fu il capolavoro sabatiniano: “gli serviva un terzino sull’altra fascia, gli ho comprato il Toro che gioca su quella opposta” solo perché conveniva).

Uomini di grande cultura, vivono questo mondo con il gusto della speculazione intellettuale, con una filosofia che va oltre il calcio. Persino quei fisici, uno massiccio e l’altro esile, fanno capire come vivono il loro mestiere, sempre sotto stress ma anche con curiosità vorace: sono maestri, ma non smettono di imparare. A volte sembra che adorino sbagliare solo per il gusto di dover riparare, rilanciare, metterci una toppa e superare se stessi. La verità è che Walter ora nella Roma giallorossa, dopo averlo tanto criticato, lo rimpiangono.

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