Uomo simbolo dello straordinario decennio del Bayern, anche nella finale vinta contro il PSG ha confermato la sua essenza: è sempre l’ospite peggio agghindato del gala, eppure quello più utile per la sua missione.
Seguendo in diretta la splendida azione che ha portato al decisivo gol di Coman nella finale di Champions League, ciò che balzava all’occhio era la morbidezza del pallone partito dal destro di Kimmich per giungere sulla testa dell’esterno francese, a cui è bastato impattarlo con la giusta forza per depositarlo alle spalle di Navas e regalare il trofeo al Bayern. A una seconda e più attenta occhiata, un’altra giocata spicca come la più decisiva, seppure inizialmente impercettibile: quella di Thomas Müller, che arriva a rimorchio sul cross basso di Gnabry e in mezzo a un nugolo di giocatori del Paris riesce a servire con uno scarico di rara intelligenza e difficile esecuzione il solitario Kimmich, concedendogli tutto il tempo necessario per servire l’assist della vittoria.
Un’idea finissima, splendidamente tradotta, eppure realizzata con la ruvidità estetica di una spaccata da calcio saponato, che poco si conciliava con la grazia di una partita ricca di interpreti elegantissimi. Ancora una volta Thomas Müller era l’ospite peggio agghindato del gala, eppure quello più utile per la sua missione. E quest’azione non è che l’ennesimo manifesto della sua unicità, l’ultima fotografia del suo glorioso decennio con la maglia dei Roten.
È propio nella stagione 2009-2010 che si affaccia al grande calcio questo ragazzo quasi rachitico, dalla postura storta, che si muove in modo strano, come un fumetto o un grosso uccello che non sa volare. Catalizza l’attenzione da subito, e non solo perché sembra un forestiero giunto dalla campagna bavarese per spernacchiare un mondo di uomini statuari, con le gambe depilate e i capelli scolpiti nella brillantina. Al termine di quella stagione d’esordio, sotto la guida di Louis Van Gaal, Müller gioca da titolare la finale di Champions League persa dal Bayern Monaco contro l’Inter e il successivo Mondiale, di cui sarà, ad appena 20 anni, miglior marcatore (5 gol in 6 partite) e Best Young Player, contribuendo a portare la Germania al terzo posto finale.
Müller non ha i tratti tipici di chi poteva essere considerato il talento del futuro del calcio tedesco, eppure quella sua prima stupefacente annata era lì a suggerire il contrario. La curiosità per questo giocatore così strambo, che dopo un gol saltella con le braccia in alto come si faceva negli anni Settanta, cresce, e gli interrogativi su di lui si fanno sempre più fitti. È talmente bizzarro il suo modo di stare in campo, che in un’epoca in cui si ragiona ancora per ruoli fissi incasellarlo in una precisa posizione è pressoché impossibile. Müller è un alieno, un enigma che in Germania tentano di sciogliere in tutti i modi, ma descriverne con precisione le qualità – almeno in un primo momento – è un esercizio di analisi complicato. Nemmeno chi lo allena tutti i giorni, come Jupp Heynckes – alla guida del Bayern dal 2011 al 2013 – riesce a offrire delle valide risposte: «È incomprensibile, sembra un ragazzino di dieci anni, gioca al calcio come se non ne avesse la minima conoscenza e vive in modo stralunato, in un mondo completamente suo».
In effetti Müller, almeno all’apparenza, non eccelle in niente. Anzi, si muove in modo talmente sgraziato che sembra lacunoso in quasi tutti i fondamentali – dal primo controllo, al passaggio, al tiro –, al punto che ognuno dei tocchi giusti completati in una partita appaiono come dei continui colpi di fortuna. «Avete visto come mi muovo? Gambe lunghe, braccia magre, un po’ scomposto. Mi viene da ridere quando mi rivedo».
Il rebus sulla sua straordinaria efficacia viene inizialmente risolto con la tesi semplicistica dell’istinto, dell’approccio libero e selvaggio con cui scende in campo, che gli permette di non subire condizionamenti e di giocare come se fosse per strada; anche se Müller, sconfessando una certa retorica della narrazione pallonara, dichiara che per strada non ci ha mai giocato: «ci sono troppe auto parcheggiate, troppo traffico, non fa per me». E certo la sua vena anarchica appare evidente, ma è un’attitudine che genera un equivoco che sempre Heynckes, in qualche modo, alimenta: «Thomas vive il calcio con una tranquillità incredibile, se ne frega della tattica, forse neppure la conosce».
È probabile che l’allenatore tedesco volesse enfatizzarne l’indecifrabilità, perché al contrario di quanto dice, Müller è un professore di tattica. Forse non di tattica teorica, ma la sua specialità, la fonte principale del suo talento è proprio nella spiccata sensibilità – quasi congenita – di capire lo sviluppo di un’azione e scegliere il movimento più funzionale per semplificare la vita ai suoi compagni e creare un pericolo per gli avversari. Sensibilità tattica, insomma. Solo a questa si può associare la sua capacità unica di saper leggere spazio e tempo. Il cuore del gioco, che Müller sente battere dentro di sé. Forse per agevolare la chiusura del dibattito sul suo ruolo e le sue caratteristiche, lo stesso Müller – che si era sempre definito “uno che fa tutto nel settore offensivo” – conia il termine Raumdeuter, traducibile come “colui che interpreta gli spazi”.
Siamo in un periodo in cui il calcio di posizione di Guardiola sta facendo proseliti in tutto il mondo, tracciando una strada che molti avrebbero iniziato a seguire. Un calcio di possesso e di tecnica, non esattamente il territorio ideale per uno come Thomas Müller. Almeno sulla carta. Quando, nell’estate del 2013, l’allenatore catalano sbarca in Baviera per portare oltre confine la sua rivoluzione, il destino di Müller – reduce da due finali di Champions League consecutive raggiunte nelle due stagioni precedenti -, sembra minacciato da un’idea di calcio che, almeno all’apparenza, si fonda su un linguaggio espressivo molto distante dal suo. E invece, sebbene il rapporto con Guardiola non sia scevro di incomprensioni, nemmeno il tecnico spagnolo intende rinunciare alle doti cerebrali del suo Raumdeuter, che a fine anno registrerà il suo record personale di gol in una singola stagione (26 in 51 partite). Addirittura, la presenza di Müller e di altri giocatori con caratteristiche profondamente diverse da quelle dei suoi ex calciatori blaugrana, spingerà Guardiola – sperimentatore famelico – a rottamare parte della sua filosofia per abbracciare un calcio più diretto e verticale.
Dopo altri due titoli di Bundesliga conquistati nei primi due anni di gestione Guardiola, Müller, grazie anche agli insegnamenti del suo tecnico, per cui nutre grande ammirazione («è incredibile, sembra che se ne stia tutto il giorno a spostare i giocatori di due o tre metri in ogni zona del campo per trovare la miglior soluzione»), perfeziona il suo calcio prosaico e diventa più prolifico che mai, mettendo insieme 32 gol in 49 presenze nella stagione 2015-2016. Ormai tutto il mondo conosce lo “stile Müller ”, la forma particolare del suo talento. E tutti non possono fare a meno di considerarlo un giocatore d’élite – benché abbia poco o niente dei giocatori d’élite “tradizionali”-, capace di imporre il suo gioco di sottrazione anche nel sistema più complesso e strutturato tra quelli in circolazione, quello di Guardiola. Esattamente come farà negli anni a seguire, quando il calcio diventerà via via sempre più fluido e articolato, più intenso, e a cui Müller adatterà sempre il suo oscuro talento, riuscendo a distinguersi con il suo approccio originale e sfruttando il vantaggio di essere abilissimo su un aspetto del gioco che il progresso non può spazzar via, l’importanza di sapersi muovere nello spazio.
Sembra risiedere proprio qui il fascino che emana Thomas Müller, nella forza del contrasto, nel valore del paradosso. Un giocatore che per estetica e movenze appare completamente fuori dal tempo, e che proprio grazie al tempo con cui sa muoversi sul campo non solo ha resistito a ogni evoluzione subita dal gioco negli ultimi dieci anni, che sia tattica, fisica o tecnica, ma è sempre riuscito a imporsi. Un giocatore che non asseconda in alcun modo la modernità, eppure riesce a essere sempre attuale. Un giocatore focalizzato solo sulla sostanza, mentre ovunque prende piede l’attenzione maniacale alla forma. Un giocatore intriso di un puro e singolare anticonformismo: anti-glamour, anti-eroe, anti-estetico, che riesce a essere protagonista di un mondo che va nella direzione opposta. Un atleta del XXI secolo che dichiara: «Il mio segreto è non avere muscoli».
Nato in baviera e cresciuto nel settore giovanile del Bayern, Müller è un bavarese purosangue, attaccatissimo alle sue radici. A distanza di tempo dall’offerta con cui il Manchester United ha tentato di portarlo in Inghilterra, nel 2015, Müller ha reso note le semplici ragioni che l’hanno portato a declinarla: «Qui ho tutto quello che mi serve: Monaco, le sue colline, i miei cavalli. L’idea di trasferirmi non mi è mai passata per la testa. Cosa può fare un campagnolo in città? Stare male».
Così, Müller è diventato l’uomo simbolo dello straordinario decennio del Bayern, sempre a modo suo però, sempre per contrasto. Perché del Bayern che negli ultimi dieci anni ha vinto otto Meisterschale e due Champions League (più due finali e quattro semifinali), Müller, grazie al suo spirito buffo e a tratti grottesco, rappresenta la parte meno rigida, meno austera. Nell’immaginario collettivo è riconosciuto come un giocatore unico. Proprio come fa in campo, è riuscito nel corso del tempo a occupare uno spazio libero, libero perché nessun altro avrebbe potuto occuparlo.