Taribo West alza la testa e comincia a correre. Veloce. Come se l’universo circostante non esistesse più. Rapido. Come se il vento non soffiasse forte contro le sue treccine nerazzure. Davanti ai suoi occhi la porta si fa sempre più grande. Passo dopo passo. Metro dopo metro. Secondo dopo secondo. Rallenta improvvisamente, prende la mira, si prepara a calciare con tutta la forza che ha in corpo. Per qualche frazione di secondo prova anche a immaginarsi la scena di quel pallone che buca il portiere o il suono del cuoio che sferza la rete. L’unico rumore che sente davvero, però, è quello di un fischio.
Un fischio che proviene da dietro le sue spalle e che si conficca come un pezzo di vetro nelle sue orecchie. Il nigeriano si gira lentamente, allarga le braccia sconsolato, prova a chiedere spiegazioni. Qualche metro dietro di lui Marcello Lippi, un viareggino che con l’allegria del carnevale ha poco a cui spartire, si toglie il fischietto dalle labbra e corruccia la fronte in una smorfia. «Ma non ti avevo detto che dovevi giocare in difesa?» domanda con tono di rimprovero mentre il gelo sembra inghiottire il centro sportivo di Appiano Gentile. «Sì mister. Ma Dio mi ha detto che devo giocare in attacco» risponde il nigeriano. L’allenatore prova a non scomporsi mentre un’espressione di meraviglia gli increspa il viso. «Ah sì? Strano, a me non ha detto niente».
Con Taribo West non esiste il bianco e il nero. Solo una lunga serie di sfumature. La realtà che si mescola con la leggenda, la fede che va a braccetto con la scaramanzia, la serietà che fa a spallate col grottesco. Un gigante d’ebano con i tacchetti affilati e col cuore dolce di un bambino. D’altra parte West ha dovuto imparare presto a badare a se stesso. A nove anni. Fino a quel momento non aveva fatto altro che aiutare la madre a preparare e vendere per strada l’akara, una specie di torta di fagioli.
Poi era arrivato il pallone. Un passatempo che era germogliato in una passione, una passione che era sbocciata in un sogno. Un sogno che nessuno gli avrebbe mai portato via. Nemmeno le raccomandazioni che suo padre gli ripeteva da mattina a sera. Nemmeno quella continua sassaiola di parole dure che gli pioveva addosso. Parole che facevano male. Parole che gli intimavano di sotterrare le sue speranze e di iniziare a cercare un sistema per avere qualcosa da mettere sotto i denti.
Taribo ascolta e abbassa la testa, ascolta e fa orecchie da mercante. Fino a quando non si sente soffocato da un’opprimente quotidianità. Decide di fare fagotto, di andare via di casa a un’età in cui la vita è un gioco ma un gioco può valere più della vita stessa. I rimbalzi del pallone lo portano alla periferia di Lagos. Una megalopoli da dieci milioni di abitanti dove essere solo un numero è già un’aspirazione. Cemento impastato con la miseria, baraccopoli senza confini dove anche le fogne sono un miraggio, migliaia di occhi che leggono la disperazione stampata su migliaia di altri occhi. Un posto che può sembrare anche un angolo di paradiso se riesce a farti fare l’unica cosa che hai sempre desiderato.
Ed è qui che West capisce che per lui il calcio può essere qualcosa di più di una semplice passione. Può essere un passaporto per una nuova vita lontana dall’anonimato e dalla miseria. A 18 anni esordisce nella Nigeria Premier League con la maglia del Julius Berger FC. Un’avventura che dura solo un anno. L’Auxerre mette gli occhi su quel giovane difensore tutto forza fisica e decide di portarlo in Francia. Ci rimane per quattro stagioni. Quattro anni impreziositi da uno scudetto e due Coppe di Francia, quattro stagioni culminate con l’oro olimpico ad Altanta 1996 con la maglia verde della sua Nigeria.
Taribo non è più un comprimario del gioco di cui si era innamorato da bambino. Ora è un difensore che fa gola a tutte le regine d’Europa. La Juve lo segue da vicino, Jupp Heynckes chiede a Lorenzo Sanz di portarlo al Real Madrid. Fra i due litiganti a godere è l’Inter che per cinque miliardi di lire si aggiudica le prestazioni del nigeriano. Ma proprio quando sembra tutto fatto, ecco il colpo di teatro. Prima di sposare l’Inter, West aveva detto sì agli spagnoli del Betis di Sviglia. Una bigamia che la Fifa non può certo officiare e alla quale mette fine infliggendo una multa di 118 milioni di lire al club francese. Il nigeriano è libero, finalmente. Libero di volare nel Belpaese e di scaldarsi al sole tiepido di Milano. Un sole così diverso da quello che arroventa la sua Africa.
È anche per questo che il suo inserimento procede a rilento. Per mesi vive in albergo. Quando si stanca di cenare in camera scende al ristorante, dove ordina carne fritta con panna e salse assortite. Innaffia il cibo con Coca – Cola e mangia tutto con le mani. Gli altri avventori a volte non gradiscono e protestano. Lo staff sorride e se ne infischia. Taribo non è fatto per la vita tutta etichetta della capitale italiana della moda. Il richiamo della sua Nigeria è forte. Troppo forte per non cedere. Quando può il difensore chiede un permesso e torna a casa. Si trova così bene che raramente riesce a far ritorno a Milano rispettando gli orari prefissati.
Anche alla Pinetina tutti lo riconoscono al volo. Mentre i suoi compagni entrano ed escono dal campo d’allenamento sgommando con loro fuoriserie, lui si presenta a bordo di una piccola utilitaria. «È che ho problemi con i parcheggi» spiegherà qualche mese dopo. Il suo punto di riferimento è Mazzola che, fra una pacca sulle spalle e l’altra, chiama affettuosamente Sandro. Va decisamente peggio a Francesco Moriero, che viene apostrofato come “Terrone”. Ma tutto in grande simpatia.
In quei mesi Taribo lega soprattutto con Gigi Simoni. L’allenatore gli fa da mister, da amico e anche un po’ da padre. Un rapporto speciale che viene rinsaldato da un cane. Anzi, da un labrador. Quello che Simoni ha ricevuto in regalo da Sartor e al quale è stato imposto il nome di “Taribo”. Una premura che il nigeriano sembra aver apprezzato. Tant’è che ogni volta che lo incontra ad Appiano Gentile, il calciatore non disdegna l’abbraccio del quadrupede, che chiama “Fratello”.
Poco a poco Taribo fa breccia anche nel cuore dei suoi compagni di squadra. Una volta trovata casa, il difensore decide di invitare a cena Javier Zanetti. L’argentino accetta di buon grado non sapendo cosa l’aspetta. Prima di potersi sedere a tavola, infatti, West lo obbliga a una maratona di preghiera. Due ore e passa di orazioni, omelie e suppliche che avrebbero messo a dura prova anche i nervi più saldi. Gli stessi nervi che, una volta, sono saltati a Gianluca Pagliuca, suo compagno di stanza in ritiro. «Il nigeriano stava ore al telefono urlando come un matto – racconta Gigi Simoni – un giorno Gianluca si lamentò con me e, per ripicca, Taribo lo accusò di fumare in camera. Alla fine litigarono e West se ne andò a dormire nella hall».
Prima di ogni partita il difensore si apparta nello spogliatoio. Si isola dal mondo, legge la Bibbia, prega. Poi, dopo aver parlato con Dio, entra in campo e fa vedere le stelle agli avversari. A settembre, durante Inter – Fiorentina (finita 3 a 2 per i padroni di casa), West entra a forbice su Kanchelskis. Un fallo duro, violento, da brividi. L’ex fenomeno del Manchester United precipita a terra e si rialza solo a bordo di una barella. Gli esami escludono una frattura alla caviglia, ma evidenziano una brutta distorsione. Il nigeriano sa di averla fatta grossa. Si scusa davanti alle telecamere ma è consapevole che per farsi perdonare non basta una frasetta di circostanza.
Taribo allora tira fuori gli artigli. Ma stavolta in senso figurato. Partita dopo partita diventa quasi indispensabile. Corre, lotta, entra duro. E qualche volta segna anche. L’Inter vince una partita dietro l’altra, inizia a volare fino alla cima della classifica. Dopo anni i nerazzurri tornano a sognare di poter cucire nuovamente lo scudetto sulle loro maglie. Un sogno che si sgretola a tre giornate dalla fine. È il 28 aprile 1998 e al Delle Alpi di Torino va in scena lo scontro diretto che vale una stagione. Del Piero porta in vantaggio i bianconeri al 21’ e l’arbitro Ceccarini non concede un rigore ai nerazzurri per un macroscopico fallo di Iuliano su Ronaldo. La Juve diventerà campione d’Italia, l’Inter si consolerà con la vittoria della Coppa Uefa (3-0 in finale alla Lazio).
La panchina di Gigi Simoni comincia a traballare. Nonostante il miracolo sfiorato. Nonostante l’affetto dimostrato dai giocatori nei suoi confronti. Nonostante la mancanza di alternative credibili. A Taribo viene il mal di pancia e comincia a guardarsi intorno. Valuta le offerte, per la prima volta si immagina con un’altra maglia, ipotizza una vita lontano da Milano. Il Liverpool gli fa la corte e lui cede. La trattativa è praticamente chiusa, ma anche questa volta arriva la retromarcia. «Ho cambiato idea – dice West presentandosi nella sede dell’Inter – voglio restare. Fra gli inglesi e il mio manager ci sono state incomprensioni».
Questione di soldi. Una montagna di quattrini. I Reds gli offrivano circa 3 miliardi di lire, esattamente il doppio di quanto percepiva da Moratti. Poi il nigeriano ha scoperto che le cifre messe nero su bianco sul contratto erano lorde e ci ha ripensato. Avanti con l’Inter. E con l’amico Gigi.
Solo che, mentre il suo allenatore parla apertamente di scudetto, in ritiro non c’è alcuna traccia di West. Nel giorno della prima amichevole stagionale arriva una telefonata da un amico nigeriano. «Taribo è malato» sussurra lo sconosciuto dall’altro capo della cornetta. Poi più niente. È uno strano presagio della stagione alle porte. L’Inter zoppica, arranca, si inabissa. Nell’ultimo giorno di novembre Moratti mette alla porta Simoni e affida la panchina a Mircea Lucescu. L’addio all’amico Gigi è un trauma. Taribo si sente solo. Il pallido sole di Milano non lo scalda più. Ha bisogno di una sicurezza a cui aggrapparsi con tutte le sue forze, di un gesto che lo faccia sentire ancora importante. Un gesto che non arriverà mai.
Il tecnico romeno lo considera troppo svagato per giocare nel cuore della difesa. Così quando l’Inter va a fare visita al Vicenza lo dirotta sulla fascia sinistra di centrocampo. Un ruolo che prevede la marcatura a uomo su Schenardi. Il nigeriano non ha il passo e va immediatamente in affanno. Non riesce a coprire, non riesce a spingere, non riesce a marcare. Minuto dopo minuto la sua fiducia evapora in piccole gocce che si ricondensano sotto forma di frustrazione. Schenardi è una freccia, lui mangia la polvere. Alla fine Lucescu fa alzare dalla panchina il giovane Silvestre e ordina il cambio.
Taribo guarda la scena esterrefatto, scuote la testa mentre le labbra si contorcono nel pronunciare la frase «Così no, così no». Il difensore abbassa la testa e si toglie la casacca. Cammina fino alla panchina, guarda il suo allenatore, gli tira contro la maglia. La sua maglia numero 16. Sudore e disprezzo che si fondono insieme fino a trasformarsi in una dichiarazione di guerra. Taribo ha superato il confine e deve essere punito. Il gol del pareggio segnato al 93’ da Silvestre è un’aggravante.
«So di aver sbagliato, non sono un bambino – dice il calciatore il giorno successivo – mi dispiace avere perso la testa: chiedo scusa a tutti. Mi spiace per la gente che ha visto, mi spiace per i bambini, ma non ho paura di niente. Ho paura solo quando manco di rispetto a Dio, al Dio che mi ha dato questa forza che nessuno potrà mai cambiare. Chi mi conosce sa che in pochi hanno l’Inter nel cuore quanto ce l’ho io».
Ma nonostante la sua conoscenza delle Sacre Scritture, West non ama porgere l’altra guancia. Il 21 febbraio l’Inter sta perdendo per 1 a 0 in casa della Lazio. Lucescu fa cenno al difensore di scaldarsi. Lui risponde che non ha nessuna intenzione di entrare in campo e che è stanco di fare la riserva. Un pensiero incartato con un insulto pesante che chiude definitivamente la sua parentesi in nerazzurro. Moratti alza subito il telefono e prova a rifilare il suo difensore al Chelsea di Vialli. In estate Salamanca e Racing Santander bussano alla porta del presidente dell’Inter per chiedere informazioni sul difensore, ma la società si accorda col Galatasaray. È tutto fatto. Ma il giocatore si impunta. «Non posso andare in Turchia, non possono trattarmi come un saldo».
West non si muove da Milano, ma per lui ci sono solo le briciole. Lippi gli comunica che non c’è una camera per lui nel ritiro dell’Inter. Lui risponde di essere pronto a dormire in camper. Purtroppo la simpatia non basta. Lippi non lo convocherà quasi mai. Un esilio che durerà fino a dicembre, quando Silvio Berlusconi decide di fare un regalo (chissà quanto gradito) ai tifosi per il centenario del Milan e ingaggia il difensore. E Taribo si presenta a modo suo. «Ho fatto un sogno, mi vedevo prima con la maglia nerazzurra poi con una rossonera e allora ho capito che il mio destino era quello di andare al Milan. E d’altronde, tempo fa, giocando una partita benefica con Weah in Africa la maglia rossonera l’ho indossata davvero».
Dopo le cattive esperienze con Lucescu e Lippi, ora West vuole costruire un rapporto speciale con Zaccheroni. Un rapporto simile a quello che aveva con “l’amico Gigi”. «Ho incontrato il mister. Credo sia felice di avere un giocatore come me. Gliel’ho letto negli occhi». Taribo scalpita, ma quella che doveva essere la sua nuova vita diventa un calvario. Prima gli viene offerta la rescissione del contratto a causa di un eccesso di extracomunitari in rosa, poi non ottiene l’idoneità a giocare in Italia per colpa di un problema cardiaco.
Per lui è di nuovo tempo di prendere il volo. Stavolta la destinazione è la periferia del calcio mondiale. Una stagione incolore al Derby County seguita da un’annata altrettanto sciapa al Kaiserslautern. In Germania West non lascerà esattamente un ottimo ricordo. Il suo allenatore, l’ex interista Andreas Brehme, si lamenta spesso. Sostiene che il nigeriano snobba gli allenamenti per restare negli spogliatoi a leggere libri tipo “Come diventare un leader”. Il difensore smentisce le accuse di scarso impegno ma ammette di non essersi assolutamente integrato in Germania e di essersi rifiutato di imparare anche una sola parola di tedesco. La vita privata non va meglio.
Nel 2002 la moglie Atinuke si rivolge all’Alta Corte di Lagos denunciando il marito per violenza verbale. Ma non è finita qui. La signora chiede la separazione affermando che Taribo si rifiuta di fare sesso da due anni. Più o meno da quando si sono sposati. Il calciatore resta in silenzio per qualche giorno. Non ci sta a passare per un violento. Magari è un po’ impulsivo, ma non è capace di fare male a qualcuno.
Così, ancora allibito, fornisce la sua versione. «Voglio chiarire, come risulta dai documenti che posso mostrare a chiunque, che non sono mai stato sposato. Nessuno può reclamare diritti coniugali nei miei confronti. È tutto falso, qualcuno ha cercato di rovinare la mia immagine. Atinuke l’ho conosciuta tre anni fa, ma non ho mai avuto storie con lei. Voglio giustizia. Non mi piace che la mia vita privata venga messa in primo piano. La mia religione e la mia mentalità non ammettono la violenza. Sono pentecostale, quindi molto legato alla Bibbia e alla parola di Dio. Voglio procedere legalmente nei confronti di chi ha osato mettere in discussione Taribo West. I soldi andranno alla Fondazione a me intitolata, che è impegnata nella costruzione di un centro per divulgare la mia religione».
Ormai il suo pallone ha smesso di rimbalzare. Almeno a un certo livello. Per lui è iniziata una nuova missione. Una missione per conto di Dio. Negli ultimi tempi al Kaiserslautern finiva di giocare e prendeva un aereo da Francoforte destinazione Milano. Da lì il viaggio proseguiva verso un ex magazzino nella periferia nord del capoluogo lombardo. Un ex magazzino che per lui era un luogo unico, immacolato, sacro. Nel vero senso della parola. Una volta arrivato in quel capannone Taribo si cambia e indossa una tonaca nera con i bottoni bianchi. Ad aspettarlo ci sono circa duecento persone. Per loro non è più il calciatore girovago che ha portato la bandiera della Nigeria in giro per il mondo. Per loro è semplicemente Pastor West.
Per quattro ore e mezza a settimana l’ex interista, autoproclamatosi pastore pentecostale, dice messa. Una gara di resistenza fatta di canti gospel, di sermoni, di ripetuti “alleluja” e di preghiere. Ad ascoltarlo c’è gran parte della comunità nigeriana della Lombardia: colf, commesse, parrucchieri. E soprattutto tante ex lucciole. Quelle che Taribo ha tolto dal marciapiede e alle quali ha ridato una speranza. «Adesso la mia vita è questa – racconta – ormai mi sento più un pastore che un calciatore: tutto quello che guadagno lo investo nella mia chiesa e nelle sue attività per i poveri».
In poco tempo quel capannone abbandonato è diventato un simbolo di speranza, di riscossa, di fiducia. Un appiglio a cui aggrapparsi quando tutto sembra precipitare. Proprio per questo il difensore ha deciso di chiamare la sua chiesa “Shelter from the Storm” (Rifugio dalla tempesta). Un nome mutuato da una canzone di Bob Dylan che è presto diventato musica per le orecchie delle immigrati. West e i suoi amici, infatti, aiutano i nuovi arrivati a trovare casa e lavoro, continuano l’attività di redenzione delle prostitute, organizzano corsi gratuiti di italiano e di informatica.
«All’inizio, al mio primo anno all’Inter eravamo quattro gatti e celebravamo i riti a casa mia. Poi prendevamo in affitto le sale degli alberghi. Adesso usiamo questo spazio ad Affori, ma abbiamo già comprato una sede più bella e grande alla Bovisa. Abbiamo già firmato il preliminare, ci mancano un po’ di soldi per il rogito. Lì apriremo una vera scuola, anzi un’università. Più un ristorante africano e un centro di accoglienza per gli immigrati africani».
I tempi delle entrate dure su Kanchelskis e della maglia lanciata contro Lucescu sono lontani. Così come i tempi delle treccine colorate. Ora che comincia a perdere i capelli per Taribo si è aperta una nuova vita. Una vita lontana dai riflettori ma illuminata dalla fede. I suoi tifosi non si dimenticano di lui. Giornali e televisioni sì. Almeno fino al marzo del 2011. Allora una macchinina blu dei carabinieri aveva mostrato la paletta rossa a una vecchia Fiat Marea che sbuffava vicino alla stazione di Lambrate.
Dall’auto era sceso un uomo di colore con un sorriso largo e i modi gentili. Un uomo di colore con un sorriso largo e i modi gentili che al momento di favorire patente e libretto aveva allargato le braccia e aveva alzato lo sguardo al cielo. «Non ho niente. Viaggio spesso all’estero e mi sono dimenticato di mettermi in regola. Fate il vostro dovere». Cosa che i militari hanno fatto immediatamente.
Così, dopo essersi resi conto che Taribo non aveva la patente, che l’assicurazione era scaduta da tre anni e che la revisione non era mai stata fatta, i carabinieri non hanno potuto far altro che rifilargli una multa da 968 euro. Una multa che Taribo ha messo in tasca con un sorriso e una benedizione.
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