Vita e miracoli (falsi) di Jesus Gil

facebook sharing button

twitter sharing button

Dagli inizi come dipendente di un bordello alla scalata politica. In mezzo, la costruzione dal niente di un’intera città, l’utilizzo dell’Atletico Madrid a fini promozionali e il carcere. Ecco la storia di Jesus Gil, l’uomo che dormiva fra le banconote

L’intervistatore gli chiede: “Cosa vorrebbe scritto sulla sua lapide?”. La risposta: “Qui giace un imbecille che pensava che le cose potessero andare meglio”. Altra domanda: “Crede che entrerà nella storia?”, e l’intervistato “Non so, però la gente mi adora”. E la sentenza: “Soy un tìo cojonudo”, “Sono un tipo figo”.

Gregorio Jesus Gil y Gil, Jesus Gil per chiunque, è morto nel 2004 ma era già davanti a tutti. Non sempre in maniera positiva, ma lo era: esagerato, colorito, primo presidente-personaggio di un club calcistico (l’Atletico Madrid, che ha gestito per circa 15 anni), sfruttatore della popolarità acquisita con la sua squadra per sfondare in ambito politico, volto tv conteso tra varie emittenti, ricchissimo ma sempre presentatosi come anti-sistema, “populista”.

In Spagna hanno prodotto una serie sulla piattaforma Hbo che ripercorre in quattro episodi tutta la sua vita, intitolata non a caso “El pionero” e che è stata una delle più seguite dell’anno. È un viaggio a velocità folle nelle avventure, le ascese e le discese fragorose, di un uomo che ha rivoluzionato non solo il mondo del pallone, ma l’intera società.

“Puttaniere”, investimenti e galera

Quando Jesus Gil diventa presidente dell’Atletico Madrid, nel 1987, ha 54 anni e alle spalle già almeno due vite, se non tre. La prima è quella di un bambino nato e cresciuto durante la Guerra Civile nella provincia di Soria, a Burgo de Ollas, uno di quei mini-borghi tipici di buona parte del centro della Spagna, a chilometri di distanza dal successivo mini-borgo: “Inverni lunghissimi, i frati che menavano i bambini in collegio”, ricorderà nel documentario un amico del futuro presidente. E povertà, povertà ovunque: siamo, appunto, nel post-Guerra Civile.

In più papà Gil muore quando Jesus ha quattro anni e mamma Guadalupe, una donna molto religiosa (“Si sciroppava anche venti messe al giorno”, scherzerà anni dopo suo figlio) e molto sveglia, deve far fronte a tutto. Intanto un consiglio a Jesusito, il primogenito, il più coccolato: “Sempre testa alta, perchè se ti vedono a terra ne approfitteranno per buttarti ancora più giù”. E poi traffici, intrallazzi, contrabbando di grano in tempo di guerra: insomma, l’arte di arrangiarsi.

Vuole che Jesus continui gli studi, e lo manda a Madrid nel 1950: il figlio è ancora magrolino, indifeso, viene dalla provincia profonda e non sa nulla della vita al di fuori dei campi e degli aratri. Plana in una capitale già enorme, ma con enormi possibilità: finisce a pensione in un bordello con 21 prostitute, la padrona gli propone di gestire i conti della casa d’appuntamenti in cambio dell’affitto mensile di 15 pesetas. È il suo primo lavoro.

Bell’atterraggio, ma è un ambiente che adora: la movida, le donne, i soldi. Ecco, i soldi: a parte il bordello, abbandona presto gli studi di Veterinaria per dedicarsi ad altri affari. Entra nel giro dei ricambi dei camion, li compra, li ristruttura, li rivende guadagnandoci: comincia così, nulla di straordinario. La svolta è quando comincia a investire il denaro nel nuovo business madrileno: il mondo immobiliare. Speculazioni, sempre più grandi: e i soldi arrivano a pioggia, fino anche a un milione di pesetas per un singolo affare (un maestro di scuola ne guadagnava 1.200 al mese all’epoca). “Dormiva tra le banconote”, si racconta nel primo episodio della serie.

E allora Madrid diventa terra di conquista, in questa seconda vita da riccone. Fa arrivare dagli Stati Uniti una decappottabile rossa, la chiama “El coche de la carne”, “La macchina della carne”, e con quella fa su e giù nella Gran Via, parcheggia fuori dai migliori locali e nell’auto è un via-vai di signorine non sempre raccomandabili. “Un puttaniere, senza mezzi termini”, secondo un altro amico, nel documentario di Hbo. Fino a quando non incontra la moglie, Maria Angeles, che lavora in una pasticceria, e che vivrà sempre nell’ombra dell’ingombrante marito: lì teoricamente si calma, e la sposa nel 1961.

È un periodo d’oro, comunque, per Jesusito. Speculazione per speculazione, perché non provare qualcosa di innovativo al massimo? “Voglio creare una città di 20mila abitanti”, annuncia tronfio Gil alla tv spagnola già a metà degli anni Sessanta. Sì, perché la televisione lo ha adocchiato, lui ammicca, forse ha già capito come toccare i nervi giusti delle persone. Parla bene, è “listo”, è sveglio, mamma Guadalupe ha insegnato bene.

E in effetti la cittadina la crea dal nulla, come dal nulla è arrivato lui: sembra una scena della “Casa degli spiriti” di Isabel Allende, quando Esteban Trueba costruisce una specie di paesino dove prima c’erano solo fango e animali, diventandone poi il “re”. Trova il terreno in provincia di Segovia, a tre ore da Madrid: ci sono delle mucche e un enorme appezzamento di terreno, lo rende edificabile e comincia a tirare su una serie di moduli abitativi, perché le banche lo foraggiano pure, e si fidano di questa miniera d’oro.

Fonda una “urbanizaciòn”, che in Spagna è considerata a metà tra la città e la frazione: è un nuovo quartiere di un paesino già esistente, e lo chiama Los Angeles de San Rafael. Esiste ancora oggi, fa parte del comune di El Espinar. Come riempire, però, tutti quei moduli abitativi in una zona che, come moltissime della Spagna centrale, non offre quasi nulla? Semplice, si crea un “mare”, sotto forma di un lago artificiale, e un impianto di risalita verso le montagne della vicina Sierra de Guadarrama. Gil spiega tutto questo in televisione, è un piazzista formidabile: e poi eventi tipo “Miss Spagna”, concerti, i migliori artisti dell’epoca spesati per creare interesse e movimento.

L’affare funziona alla grande. Los Angeles si riempie di persone,diventa di tendenza, i moduli abitativi vengono venduti in massa e le tasche di Gil si gonfiano all’inverosimile. È il 1969 e tutto sembra in discesa per Jesusito, fino a quando il destino, o forse il materiale utilizzato per la costruzione dei vari edifici, non gli presenta un conto salatissimo. È il 16 giugno e in uno dei ristoranti più grossi del paese, non ancora completato né inaugurato ufficialmente, si sta pranzando, quando il tetto viene giù all’improvviso ammazzando 58 persone e ferendone altre 150: una catastrofe senza precedenti. Si scoprirà in seguito che mancavano pure le autorizzazioni edilizie.

A pagare per tutti è Gil, condannato per omicidio colposo in quanto proprietario del locale. Si aprono per lui le porte del carcere di Segovia dove, secondo il giudice, dovrà restare cinque anni e indennizzare con un milione di pesetas ciascuna famiglia delle vittime (“Sono dovuto andare di morto in morto”, dirà con un certo cinismo). Ci rimarrà soltanto 18 mesi, grazie a un indulto concesso nientemeno che da Francisco Franco in persona, ancora al potere. Si dice che mamma Guadalupe avesse tempestato di lettere sia il caudillo sia alcuni vescovi fino ad arrivare al Papa, addirittura, chiedendo la grazia per il figlio.

 

“Un business come un altro”

“A Jesus il calcio non è mai interessato. Ha sempre rappresentato per lui solo un’attività per fare soldi”. Parole nella serie tv di José Maria Garcia, il giornalista sportivo più importante e influente tra anni Sessanta e Ottanta del secolo scorso. Una persona fondamentale per capire l’ascesa inarrestabile del costruttore nei gangli del futbol. Già, perché dopo l’uscita dal carcere, dove a parte un po’ di freddo comunque non è che se la passasse così male (pasti regolari offerti anche agli altri prigionieri e partite di parchis, gioco da tavola molto popolare in Spagna, con i secondini), Gil deve reinventarsi.

È rimasto piazzista, ma la sua merce non attira più come prima. Di nuovo eventi, concerti, pubblicità per Los Angeles, però ora è più difficile. Invita persino il Barcellona ad allenarsi in città, con Cruyff, Neeskens e compagnia. In compenso è grazie a un altro club, che fa la preparazione nella vicina Segovia, che mette i piedi definitivamente nel mondo del calcio: l’Atletico Madrid, con il presidente Vicente Calderòn in cerca di persone in grado di risanare i disastrosi conti societari. I “colchoneros” sono una delle migliori squadre della Liga, ma con endemici problemi di soldi e uno stadio (il futuro Vicente Calderòn, appunto, nato come “Estadio Manzanares”) terminato nel 1966 e in via di ristrutturazione, con tutti gli annessi economici.

Gil, che ha visto il suo portafoglio intaccato comunque in minima parte (è andato “di morto in morto” con molta calma, cercando di guadagnare tempo) casca a fagiolo: Calderòn lo porta dentro la dirigenza del club durante il suo primo mandato, che termina nel 1980. Le buone referenze sono anche provenienti dai media, in particolare da José Maria Garcia, appunto. L’Atletico sposta la preparazione da Segovia a Los Angeles de San Rafael e fino alla morte del massimo dirigente madrileno nel 1987, i due rimarranno buoni amici.

Solo a quel punto Jesusito tenta il grande salto, e lo fa alla sua maniera: si candida alla presidenza del club promettendo un colpo sensazionale per una squadra costretta poco tempo prima a cedere il suo miglior giocatore, il messicano Hugo Sanchez, ai rivali cittadini del Real, onde evitare ulteriori problemi economici. Il nome è quello di Paulo Futre, giovane attaccante del Porto fresco vincitore della Coppa Campioni contro il Bayern Monaco nella finale diventata celebre per “il tacco di Allah” di Madjer. Sembra di vedere quello che anni dopo farà Florentino Perez con Luis Figo e gli altri Galacticos: “Votatemi e vi porto il top”.

Gil viene eletto, Futre arriva e diventerà quasi un figlio adottivo per il presidente: anni dopo diventerà anche direttore sportivo dell’Atletico. Cominciano qui alcune pratiche che, una volta scoperchiato il pentolone, aiutano a capire come l’imprenditore di Burgo de Ollas tratterà il club: la prima è che ogni nuovo acquisto non viene finanziato dalla società, ma dalle (munifiche) tasche del presidente, che di fatto poi “regala” il calciatore alla squadra. Una cosa normale, o quasi, in Italia, ma illegale in una struttura come quella spagnola dove i “soci” di ogni club sono come degli azionisti, oltre che dei votanti al momento delle elezioni. La seconda è il pagamento degli stipendi in parte in nero, come ammette lo stesso Futre nella serie tv, per pagare meno tasse: “C’era un contratto A, quello ufficiale, e un contratto B, con i soldi effettivi. Illegale? Sì, ma lo facevano tutti”.

Certo, uno come Gil non rispetta molto le regole decoubertiniane, e se partecipa lo fa per vincere. All’inizio, così, nonostante campagne acquisti faraoniche, saltano allenatori, anche di peso, come tappi di spumante: uno di loro, Luis Cesar Menotti, al momento della cacciata comunque non le manda a dire e definisce il suo presidente come “la brutta copia di Al Capone”. Con le camicie aperte sul davanti, le collane d’oro e un fisico piuttosto pingue, Gil diventa presto un volto da invitare, ora, anche alle nascenti trasmissioni sportive, dove può incarnare alla perfezione lo stereotipo del dirigente vulcanico lanciando strali contro “la mafia del calcio”. Eccolo, il miliardario anti-sistema.

 

“Caso Camisetas”

A un certo punto sulle maglie dell’Atletico Madrid, nel 1991, comincia ad apparire uno sponsor abbastanza strano: Marbella. Sì, la città andalusa sulla Costa del Sol, 150mila abitanti circa, meta fino agli anni Cinquanta-Sessanta di un certo turismo modaiolo-internazionale e poi decisamente crollata come frequentazioni.

Che c’entra Marbella con Madrid? E’ come se la Roma o la Lazio sponsorizzassero il Salento: ci può stare ma, insomma, la spiegazione bisognerebbe chiederla in giro. E il motivo in questo caso è semplice, perché Jesus Gil nel 1991 è diventato sindaco della città, che decide di ribaltare completamente, riconvertendola in un centro del turismo di lusso. Quindi dentro casinò e palazzoni sul mare, via tutto il resto: ci sono 27 chilometri di costa da “valorizzare”. La città è pazza di lui, che si mostra tronfio dal balcone, sempre con la camicia aperta, e che rappresenta agli occhi di molti il simbolo del successo nato dal nulla. Per tre volte di fila verrà eletto al grido di “Gil, amigo, el pueblo està contigo”, versione rovesciata di “El pueblo unido jamàs serà vencido”.

Il capolavoro comunicativo-politico è la creazione di un partito politico che si chiama come lui: Gil. Nel senso di “Grupo Independiente Liberal”. Un nome che dice tutto e niente, partorito da un entourage che lo segue passo a passo, rasentando l’adorazione messianica: avvocati, faccendieri, affaristi, ma anche semplici cittadini. “Era come Maradona”, ammette nella serie tv il figlio, che si chiama Jesus pure lui, e che diventerà sindaco di Estepona, cittadina accanto a Marbella, ovviamente col partito Gil.

L’apice di tutta questa bolla è la doppietta Liga-Coppa del Re ottenuta dall’Atletico Madrid nel 1996 con Radomir Antic in panchina e in campo gente tipo Caminero, Simeone, Penev e Kiko. E’ un periodo in cui Gil concede interviste in piscina o è protagonista di programmi sulla tv andalusa dove, immerso in una Jacuzzi e circondato da sei-sette ragazze in costume, conciona sui problemi della città. “Jesus Gil è un problema? No, è la soluzione al problema”, parla già in terza persona di se stesso. È intoccabile, a Marbella organizza coi soldi del Comune convegni sulla giustizia a base di cene con caviale iraniano e vodka, per ingraziarsi magistrati e pubblici ministeri. Gli arriva una multa da 240 milioni per avere costruito una passeggiata sul mare senza autorizzazioni e la risposta è: “Non ci penso neanche a pagarla”.

L’Atletico, come il suo presidente, in compenso spende e spande (arriva Vieri dalla Juventus, per esempio), il meccanismo non è cambiato: una cosa si mischia all’altra, lo sport e la politica, si pubblicizza Marbella tramite la squadra e la squadra è un mezzo di propaganda politica. Un legame inestricabile, chi prova a mettersi in mezzo come le opposizioni in Andalusia si beccano epiteti tipo “puttana” o “chorizo”, cioè “coglione”, e magari pure qualche ceffone in pubblico. “Molti ce l’hanno con me, ma sono solo dei nani”, minimizzerà. “Rispondo poco alle provocazioni, ma se lo faccio dico la verità”. E intanto pensa di rompere il bipartitismo spagnolo, portando il partito Gil alle elezioni nazionali, mentre conquista Ceuta e Melilla, le due enclavi spagnole in Marocco, decisive sotto l’aspetto migratorio. Sogna anche lì di costruire casinò e palazzi sul mare e di potenziare le crociere verso i Caraibi: progetti faraonici, come sempre.

Finché, come il crollo del ristorante di Los Angeles de San Rafael, non arriva il conto, molto più salato stavolta. È un effetto-domino, cade la prima tessera e viene giù tutto. Si comincia con una busta anonima spedita al “Pool anti-corruzione” istituito dalla giustizia spagnola nel 1996, contenente i bilanci di Marbella, da dove si evince che alcuni milioni di pesetas sono spariti senza rendicontazione nel corso degli anni, e casualmente sono i soldi della sponsorizzazione dell’Atletico. E poi le magagne con l’Atletico stesso, che a fine giugno 1992 è a un passo dalla sparizione, sommerso da 4 miliardi di debiti (il salario minimo dell’epoca è di 55mila pesetas, per fare un paragone): è il periodo della trasformazione dei club in “Sociedad Anonimas Deportivas”, e ai Colchoneros non tornano i conti.

Due miliardi di debiti sono, ed è incredibile a pensarci, accumulati dalla società nei confronti del suo presidente (ricordate, la formula del “regalo” dei nuovi acquisti, pagati di tasca propria da Gil): su questi Jesus decide di rinunciare, anche se con uno stratagemma contabile se li riprenderà attraverso future plusvalenze sui calciatori, alcuni dei quali nemmeno calciatori, ma semi-figuranti tesserati solo per imbastire strane cessioni . Gli altri due miliardi, dovuti ad altre inadempienze, vanno trovati in altra maniera: un po’, 110mila pesetas, Gil li otterrà tramite donazioni, anche per strada, fattegli dai tifosi. Il resto attraverso un imbroglio architettato con un finto prestito bancario, coi soldi che torneranno all’istituto di credito pochi giorni dopo l’operazione, giusto il tempo di far vedere agli organi controllanti che il denaro era arrivato al club. Così, niente retrocessione d’ufficio in Segunda B (la terza serie spagnola).

“Lui voleva salvare sia l’Atletico che Marbella: lo faceva delinquendo, certo, ma queste erano le sue intenzioni”, ammetterà il secondo figlio di Gil, Miguel Angel, dal 1993 nella dirigenza dei Colchoneros. In quel giugno del 1992, mentre non si sapeva che fine avrebbe fatto il club, sarebbe peraltro arrivata una delle vittorie più belle per i biancorossi, il trionfo in Coppa del Re al Bernabeu proprio contro il Real: 2-0, punizione-capolavoro di Schuster e magia di Futre, poi ceduto al Benfica per sanare le casse, come Hugo Sanchez tanti anni prima.

Intanto, però, il “Caso Camisetas”, nato da quello strano sponsor, sarebbe proseguito. Dopo la busta anonima arriveranno le indagini sugli stipendi in nero, l’Atletico finirà in amministrazione controllata e a Marbella il partito Gil sconfitto e dilaniato da polemiche interne: per i giudici incaricati di indagare sui due fronti pioveranno minacce fisiche e scritte sui muri. Per Gil si spalancheranno le porte del carcere per appropriazione indebita e poi degli arresti domiciliari, il peggio del peggio per uno abituato a stare “en la calle”, per strada, a contatto con le persone. Quando possibile galoppando sul suo Imperioso, l’adorato cavallo bianco.

Per i Colchoneros arriveranno tempi duri, la retrocessione in Segunda Divisiòn e la contestazione dei tifosi nei confronti del suo presidente, a cui verrà imposto per sentenza di lasciare il club, oltre che la poltrona da sindaco di Marbella. L’Atletico, facendo repulisti di tutto, troverà tra l’altro un diciottenne su cui costruire il futuro: Fernando Torres, ultimo lascito della gestione-Gil.

Stanco, sfiduciato, messo in disparte, l’ormai ex presidente morirà nella sua tenuta fuori Madrid nel 2004, a 71 anni. Un’emorragia cerebrale, come Vicente Calderòn. Prima di essere sepolto nella cappella di famiglia al suo funerale parteciperanno decine di migliaia di persone, col feretro che farà per tre volte il giro del Vicente Calderòn tra lacrime e applausi. Rimane il personaggio, esagerato in tutto, dal fisico alle dichiarazioni, un tipo mai visto in precedenza nel calcio europeo (no, nemmeno Silvio Berlusconi): un pioniere, appunto.

POTREBBE INTERESSARTI

I PIÙ LETTI DELLA SETTIMANA

Altre letture interessanti