Una vittoria che ha il sapore di liberazione, ottenuta da underdog contro l’Ajax campione del mondo
La Juventus che vince i fantasmi del passato e del futuro, che scardina quella che già all’epoca sembrava una maledizione alzando la sua seconda e finora ultima Champions – il 22 maggio di venticinque anni fa – è una squadra vorace. Lo dirà Alex Ferguson, che su quella rabbia (più che sulla tecnica) avrebbe modellato il suo Manchester United fino al treble del 1999. Ma il club torinese, come nel precedente disgraziato del 1985, nel 1996 non ha spazio per triplette o raddoppi: si prende la Coppa dopo aver perso ogni altro trofeo, giocandosi in una sera i frutti di una stagione di nervosismi, supremazia spesso in discussione, controversie, polemiche. Lo fa da outsider, morta e risorta dopo mesi complicati. Contro i campioni del mondo dell’Ajax, ai rigori. Con la fortuna, l’applicazione, la lucidità delle idee di gioco e consapevolezza di forza. Con la fame e il senso di riscatto, soprattutto.
E dire che già l’estate 1995, che precede il ritorno dei bianconeri in Coppa dei Campioni – intanto diventata Champions League, ma ancora aperta solo al primo di ogni torneo nazionale, in una sorta di età di mezzo rispetto alla formula attuale – dopo nove anni è tutt’altro che banale.
Dopo un digiuno, un altro, che durava dal 1986, lo Scudetto è di nuovo a Torino, con Moggi, Giraudo e Bettega in regia, Umberto Agnelli come nume tutelare e un giovane Marcello Lippi in campo, per un tridente verticale sbocciato nello scontro diretto col Parma di Nevio Scala e da lì a dominare il girone di ritorno. Eppure, di fronte alle successive scelte di mercato, l’entusiasmo cala: come a togliersi un peso, Roberto Baggio (capitano, numero dieci, Pallone d’Oro 1993) viene sbolognato al Milan per 18 miliardi, dopo una stagione in infermeria e l’esplosione di Del Piero nello stesso ruolo, a completare l’attacco con Vialli e Ravanelli, il primo con estro da leader e Penna Bianca da operaio del gol; i tifosi mugugnano, sicuri che privarsi del Codino per rafforzare una concorrente non sia un suicidio? Si parte già con una scommessa.
Di certo, la campagna acquisti dà due indicazioni: la Juve sta costruendo una rosa per giocare su più fronti; e non vuole un altro fantasista, anzi preferisce responsabilizzare Del Piero. Dietro arrivano il terzino sinistro Pessotto e lo stopper Vierchowod dalla Sampdoria, trentacinquenne e all’ultimo tentativo di vincere in Europa dopo la finale di Wembley persa contro il Barcellona. A centrocampo la chiave dovrebbe essere l’acquisto dell’ala destra Lombardo sempre dai blucerchiati, con cui Lippi vuole costruire un «trapezio» con Del Piero a sinistra e le due punte al centro; ma una frattura alla gamba lo mette fuori già in ritiro, agevolando la crescita di Di Livio sulla fascia e Deschamps al centro, insieme al metronomo Paulo Sousa e al working class hero Antonio Conte.
In più, saranno decisive due compere minori, ovvero il mediano forma & sostanza Jugović (sempre dalla Samp) e Padovano, attaccante di scorta smaliziato coi rigori, che in bianconero metterà la testa a posto. Dietro, confermati Peruzzi in porta, Ciro Ferrara al centro e il mestiere di Torricelli a destra, oltre a un giovane Tacchinardi che all’inizio Lippi usa come libero, prima di votarsi del tutto alla zona.
Il “gruppo” (vera ossessione dell’allenatore, da sempre) è compatto e affamato; il gioco verticale, il pressing e il 433 restano confermati, salvo variazioni in 442. Ma la Champions non è una formalità, visto che il sorteggio mette la Juve in un girone con il Borussia Dortmund (con cui qualche mese prima aveva vinto a fatica una semifinale di Coppa Uefa), con prospettiva di trovare nella fase a eliminazione diretta l’Ajax o il Real Madrid. «Peggio di così…», titola amara Repubblica. Oltretutto, il bis in campionato si prospetta faticoso: il Milan di Capello si rilancia con Weah e lo Baggio; Massimo Moratti battezza la sua prima estate interista con spese da follie dell’imperatore (Zanetti, Ince, Roberto Carlos); il Parma di Tanzi sceglie il Pallone d’Oro Hristo Stoičkov, dal Barcellona; la Roma di Mazzone è un bunker; mentre la Fiorentina di Batistuta e la Lazio spericolata di Zeman restano comunque pretendenti credibili per lo Scudetto.
Eppure la Juve all’inizio si tiene a ridosso dei rossoneri, forti della solita partenza “alla Capello”, con tre vittorie in altrettante partite. In mezzo, il debutto in Champions a Dortmund (13 settembre), nella partita più difficile di un raggruppamento con dentro anche i più modesti Glasgow Rangers e Steaua Bucarest. Ma in Germania, davanti a quattro reduci bianconeri (Kohler, Reuter, Julio Cesar, Möller), si mette subito bene. Lippi non può contare su Vialli e Ravanelli, ergo si abbottona con Di Livio, Sousa, Deschamps e Jugović, lasciando in avanti Del Piero e Padovano. E se Möller al primo minuto segna e fa venire qualche nostalgia ai tifosi, l’effetto dura poco, anche perché la Juventus di quegli anni è abituata alle rimonte. Così al 12′ Padovano trova l’angolino di testa, mentre poco dopo Del Piero esporta in Europa il “gol alla Del Piero”, aprendo un’annata di reti iconiche. Infine, un tuffo di Conte nel secondo tempo chiude i conti (1-3), spianando la strada per i quarti. La squadra, infatti, due settimane dopo – altro gol “alla Del Piero” – divora la Steaua al Delle Alpi (3-0), con davanti anche Vialli e Ravanelli (in rete lui e Di Livio) e portandosi in testa al girone.
Poi a ottobre arriva la prima sconfitta stagionale, a San Siro contro il Milan, e si sente subito puzza di passaggio di consegne per la Serie A. La Juve si perde: scivola a -4 dalla vetta, esce dalla Coppa Italia agli ottavi contro una piccola Atalanta, perde a Udine e a Roma contro la Lazio, addirittura 4-0. Si parla di crisi, i giocatori sono irriconoscibili. Lippi fa da parafulmine: «Mi assumo la responsabilità di tutto ciò. Visti i tanti impegni, non sono riuscito a far scendere in campo una squadra con una situazione atletica adeguata», ammette nella pancia dell’Olimpico, dopo che Casiraghi e Bokšić hanno fatto a fette la sua difesa. Ma la verità è che si tratta di una Juventus – una delle pochissime della storia – nervosa in campionato e “bella di notte”: la domenica perde coesione tattica, il mercoledì si ritrova, tanto che fra andata e ritorno contro i Rangers ne segna otto. Ancora Del Piero, ancora a giro; tre volte Ravanelli, in festa con l’esultanza del sottovalutato che ha qualcosa da dimostrare; quindi i gregari Conte, Marocchi e Torricelli. Finisce 4-1 a Torino e 0-4 in Scozia, col primo posto matematico con due partite da giocare. A febbraio si ripartierà col Real, ma questi gironi sono già la prova di superiorità di una squadra paradossale, dominante in Europa e copia sbiadita di quella dell’anno prima in campionato.
Ora: che la pausa Champions sia un modo per ritrovarsi? Anche no. L’ambiente sembra riprendere coscienza battendo la Fiorentina (1-0), pareggiando al Tardini (1-1) e vandalizzando un Torino in crisi (5-0) in un derby che è show di Vialli, ma già a Marassi due sassate di Chiesa danno i tre punti alla Sampdoria (0-2), prima di vincere con l’Inter ancora grazie a Vialli e poi dissolvendosi di nuovo a ridosso di Natale, in casa contro la Roma (altro 0-2). E Vialli diventa un caso: se in campionato segna come l’anno precedente, in Champions è a secco, e mentre la squadra arranca – alla sosta arriva quinta, a sei punti dal Milan capolista – manda frecciatine a Lippi. «Siamo prevedibili», ecco perché in campionato fatichiamo. Nel dubbio, a gennaio un suo tocco contro il Parma vale la prima Supercoppa Italiana del club e qualche giorno di serenità. Ma a preoccupare sono ancora le amnesie difensive, che a ridosso di partita serata costano un pareggio col Bari e un 3-3 «comico» in trasferta con la Cremonese. Il rendimento è mediocre, tanto che si parla di «epurazione». I primi indiziati sono Ravanelli e Vialli, splendido 32enne in scadenza che Moggi e soci hanno tutt’altro che voglia di trattenere. Poi però torna l’aria: le vittorie con Piacenza, Cagliari e Napoli – in mezzo la sconfitta col primo Vicenza di Guidolin – riportano buonumore, anche se non servono ad accorciare sui rossoneri, che con l’1-1 dello scontro diretto del 25 febbraio si prendono lo Scudetto.
Per fortuna, però, ricomincia la Champions, ultimo obiettivo di questa Juve in cui tutti paiono in discussione, coi vari Vialli, Vierchowod e Ravanelli a giocarsi la loro The last dance europea. Non bastasse, a Madrid l’andata dei quarti finisce male: contro uno dei peggiori Real di sempre, Raúl (all’epoca una sorta di Del Piero spagnolo) sgambetta una Juve versione campionato, costringendola agli straordinari al ritorno. Che si gioca il 20 marzo, dopo cinque giorni di ritiro e addirittura uno sciopero del calcio, con Vialli capofila; e che invece sa di storia. Lippi, senza Ravanelli, benedice il tridente con Padovano, lo stesso Vialli e Del Piero. Al 17′ c’è una punizione per lui, reduce da mesi opachi. Longhi lo invoca in telecronaca: «Bisogna che torni quello del 1995». La barriera si apre, la palla passa, è 1-0. Il resto, lo fanno una difesa attenta e Padovano, che nel secondo tempo viene pescato al limite e in diagonale si prende la qualificazione. A margine uscirà anche un filmato di Vialli, quasi un backstage del pre-partita: si vedono un gruppo affiatato e ritrovato, la consapevolezza della propria forza (si parla di «mazzate» in vista per il Real), l’ironia. Anche se non segna e le voci lo vogliono lontano da Torino, Vialli è ancora leader. E la Juve riparte dal momento più difficile.
I sorrisi si moltiplicano, anche perché ora c’è l’umile Nantes, con la prospettiva di una finale a Roma contro l’Ajax di Van Gaal, che per arrivarci deve battere il Panathinaikos – e lo farà, sì, ma in rimonta ad Atene dopo aver perso ad Amsterdam. Intanto, però, nell’andata della semifinale di Torino, il 3 aprile, finalmente si sblocca Vialli, prima che uno Jugović (2-0) ormai protagonista – al contrario di Sousa sottotono e polemico rispetto all’anno prima – rimandi alla dirigenza francese le provocazioni dei giorni prima, quando avevano introdotto la gara con un «noi formiamo i giocatori, la Juve li compra». Fra Davide e Golia, vince il secondo. Ma per la Juve, si sa, in Champions non è mai scontato. E Vialli ora è il più motivato: «Voglio la coppa anche per dimenticare Wembley», dice a margine, e come lui Lombardo e Vierchowod; l’idea di una stagione da buttare, in caso di rimonta, non lo turba, per quanto è certo e dispiaciuto del fatto che lascerà a fine stagione. «Ma non accetto che questioni legate al mio contratto distraggano la squadra», ripete. E, nel dubbio, segna anche al ritorno, prima che i francesi si sveglino dal torpore senza mai rischiare davvero di qualificarsi. Finisce 3-2 per loro, ed è finale.
Che si gioca il 22 maggio, dopo un pareggio col Bari retrocesso e il secondo posto in campionato. Sulla carta, da sfavoriti: di fronte ci sono i campioni del mondo dell’Ajax, che lo stesso Vialli definisce «di un altro pianeta»; hanno perso una sola volta in tutta la Champions; e rispondono ai nomi di Davids, Litmanen, Silooy, Kanu, dei fratelli de Boer. Ma la Juve è lì, a coronamento di un ciclo iniziato l’anno prima con la vittoria della Serie A, e ha i mezzi per spodestarli. Magari non giocherà lo stesso calcio totale, né sarà al loro livello tecnico (per Repubblica, gli olandesi hanno i «piedi migliori»); ma in quanto a organizzazione del collettivo è pari, mentre per fame, fisicità e attitudine psicologica alla pressione è superiore. Non a caso, grazie all’aggressività i bianconeri – in campo col tridente, davanti a Conte, Deschamps e Sousa – segnano già al 12′, con Ravanelli che dal fondo sfrutta un tilt fra Van der Sar e Frank de Boer. Quindi l’Ajax pareggia in maniera fortuita con Litmanen, ma la Juve resta superiore, continua ad attaccare. Ci sono il carisma di Vialli, all’ultima occasione per alzare la Champions; la classe di un Del Piero in stato di grazia; la fatica degli altri; e soprattutto le riserve, cioè Jugović e Padovano subentrati a Conte e Ravanelli. E se la partita rimane sull’1-1 fino ai rigori è solo per sfortuna. Tant’è che l’Ajax arriva ai tiri dal dischetto con l’affanno di chi ha cercato di esplicare il proprio calcio per un’ora e mezza senza riuscirci; la Juve, al contrario, con il sangue agli occhi di chi ha recitato il proprio copione, ed ora è certo dei suoi mezzi per vincere. La differenza è qui: Peruzzi ne para due dei primi quattro, a Davids e Silooy; Ferrara, Pessotto e Padovano segnano senza che i due metri di van der Sar ci mettano una pezza; e l’ultimo, quello decisivo, Jugović lo batte con un sorriso sulla bocca che resterà iconico.
All’epoca, neanche a dirlo, quella coppa fu vista come una di liberazione: undici anni dopo l’Heysel, la Juventus metteva in un cassetto i fantasmi e si apprestava ad aprire un nuovo ciclo di vittorie serene in Europa. Non sarà così: in estate la squadra verrà smontata, partiranno Vialli, Ravanelli, Vierchowod e Sousa in luogo di giovanissimi tipo Vieri, Zidane, Bokšić, Montero; che nel 1997 arriveranno di nuovo in fondo, per di più da favoriti, contro il Borussia Dortmund, non fosse che finirà 3-1 per i tedeschi. Da lì la Juve giocherà altre quattro finali, con Lippi (1998 e 2003) e con Allegri (2015 e 2017). A volte da outsider, più spesso alla pari. Mancheranno a volte la fortuna, a volte la fame, ogni tanto la tecnica, l’audacia. Sempre, in ogni caso, il sorriso di Jugović.