Diciotto mesi dopo il suo addio al calcio l’ex numero dieci giallorosso vuole assumersi più responsabilità come dirigente
Ogni volta che viene inquadrato dalle telecamere che prima della partita indugiano sulle poltroncine dirigenziali, Francesco Totti ha l’espressione di un bambino che osserva giocare altri bambini e vorrebbe tanto unirsi a loro. Stretto nei suoi abiti nuovi, più scomodi di maglietta e pantaloncini, siede con una postura incerta, quasi fosse vittima di un’immobilità imposta.
Di tempo né è passato da quando ha salutato definitivamente il campo, quasi due anni, ma l’eterno Capitano sente ancora pulsare dentro di sé una passione fanciullesca per quel gioco che era la sua vita, che non voleva abbandonare e che ora è costretto a guardare dall’alto di quelle poltroncine, dal posto dal quale per 25 anni qualcun altro ha osservato lui e di cui lui non si interessava, perché quando sei su quel campo non pensi a quello che c’è fuori, e a volte, come nel caso di Totti, è probabile che non pensi proprio, giochi e basta, come fanno i bambini.
A parte qualche tentazione prontamente respinta, Totti ha smesso precocemente di preoccuparsi per il suo futuro, di cosa avrebbe fatto da grande. Il destino con lui è stato piuttosto chiaro: ci sarebbero state sempre Roma e la Roma. I dubbi sono sorti una volta consumato il doloroso passaggio dal campo alla tribuna, dallo spogliatoio all’ufficio, un passaggio molto più difficile di quello con cui, di prima o al volo, era solito mandare in porta un compagno nonostante fosse voltato di spalle.
Per prima cosa è subentrato lo spaesamento: «Ero abituato a fare sempre le stesse cose: sveglia presto, colazione, allenamento. Come una macchina. Adesso devo programmare la giornata. L’impatto non è stato semplice». Smarrito a causa della routine interrotta, e per capire cose inserire in quella quotidianità improvvisamente vuota, ha chiesto alla Roma del tempo per pensare. Nella vita di un uomo comune, il momento di abbandonare il lavoro a cui ci si è sempre dedicati sopraggiunge in età più avanzata, quando più che fare o riflettere su cosa poter fare si pensa a riposare, si rallenta, senza l’assillo di dover sfruttare quel tempo per realizzare qualcosa di costruttivo.
Per un calciatore il discorso è evidentemente diverso. A quarant’anni la testa viaggia ancora veloce, il fisico regge la fatica, il dinamismo è vivo. E nonostante il privilegio, di cui qualcuno gode, di potersi accomodare sul patrimonio accumulato lungo una carriera luminosa raggranellando furbescamente qualche soldo attraverso la solida immagine di grande ex, alla maggior parte dei calciatori, una volta finita la carriera, tocca reinventarsi. O quanto meno darsi da fare per non essere inghiottiti dal nulla. E anche se a Totti quest’incombenza si è presentata in forma ridotta, visto che il suo posto in società è il logico continuum di una vita da simbolo giallorosso, calarsi nella sua nuova realtà è stato traumatico.
I primi mesi da ex giocatore, Totti li trascorre guardando malinconicamente i suoi scarpini appesi al muro, sospeso in un limbo. Troppo amore per il gioco, troppo struggente quel congedo per trovare il coraggio di voltare pagina velocemente. All’Olimpico, il giorno del toccante addio, c’era tutto ciò di cui Totti ha bisogno. La sua famiglia, la sua squadra, il suo popolo, il campo da calcio.
Se avesse potuto, sarebbe rimasto lì per sempre, a girare attorno alla pista e piangere lacrime infinite. È dovuto uscire e affrontare il mondo, senza pallone, senza strumenti per confrontarsi con la sfida del futuro, diversa da tutte quelle con la Juve, con la Lazio, con la Nazionale. Ha sbattuto contro domande spigolose: chi è Totti fuori dal campo? Quanto vale?
Quando inizia il suo percorso di dirigente, è molto confuso. Vuole aiutare la Roma, ma non ha ancora idea di come poterlo fare. Firma un contratto con scadenza 30 giugno «Cercherò di mettermi a disposizione a 360 gradi, dal settore giovanile fino al Presidente. In questo momento non voglio avere un ruolo preciso, voglio essere tutto e niente. È normale che ci vorranno sei mesi, un anno, due anni per capire veramente quello che mi piacerebbe fare», dichiara al momento dell’ufficialità.
Disorientato da questo nuovo mondo, si arrocca dietro l’unica certezza di cui al momento dispone: nessun dirigente conosce le dinamiche di una squadra meglio di chi ci ha passato una vita. La sua comfort zone è lì, il territorio da cui partire per orientare la sua bussola è quello, il più vicino possibile a quegli ex compagni che il cuore e l’inconscio in alcune interviste lo portano ancora a chiamare compagni. «Ho la fortuna di poter stare con la squadra. So come trattare un giocatore. Divido le partite con loro, vado sul pullman, in ritiro. Dentro lo spogliatoio può starci davvero solo chi ne conosce gli sguardi, le parole, i momenti giusti. Ci vado ogni giorno, come prima. Solo che adesso non mi spoglio».
È difficile dubitare dell’importanza che il sostegno, la presenza costante di Totti – con tutta l’allure di leggenda che si porta dietro – ricopra nelle faccende di squadra. Di come il peso di ogni sua parola, ogni suo consiglio o mediazione siano impregnate di valore agli occhi di giocatori e staff. E in ottica dirigenziale è senza dubbio un vantaggio, perché la sacralità dello spogliatoio è intoccabile, e a nessun dirigente di nessuna squadra è concesso scalfirla o metterci le mani frequentandolo liberamente.
Totti, che di quello spogliatoio ha ancora le chiavi, può restituirne il polso, e anche se il resoconto che farà agli atri dirigenti sarà sempre filtrato per tutelare la riservatezza che lui sa bene si deve a quel luogo intimo, la sua autorevole presenza dentro il gruppo è un punto d’osservazione privilegiato per fare da cerniera tra squadra e società.
Punto di riferimento, leader simbolico, emissario rispettoso, il primo anno da dirigente di Totti si divide tra l’identificazione del suo nuovo ruolo e la nostalgia per quello vecchio, da giocatore, che lo porta a passare tanto tempo con la squadra perché ancora, forse, vorrebbe sentirsene parte attiva. Ha ancora bisogno di respirare l’odore familiare dell’erba umida che si incastra tra i tacchetti, di stare vicino alle sacche di palloni, di vivere tutto quel piccolo universo di oggetti, suoni e gesti che scandiscono le giornate di un calciatore.
Si è sempre dichiarato uomo capace di esprimersi meglio con i piedi che con le parole. I primi dodici mesi in giacca e cravatta ne sono una conferma. Interviste e dichiarazioni sono ridotte all’osso, non si vede quasi mai, se ne sente parlare poco e le notizie che lo riguardano sono spesso legate a partitelle benefiche in cui ancora regala cucchiai e bordate all’incrocio che diventano subito virali. E per quanto sia nota la sua volontà di muoversi dietro le quinte, col tempo il suo silenzio inizia a diventare ambiguo ed echeggiante, fino a sollevare interrogativi amari: potrà davvero contribuire la crescita della Roma?, o è destinato a essere solo il simulacro di un campione epocale, un totem da venerare e di tanto in tanto spolverare?
In questo nuovo capitolo della sua vita, Totti comincia a fare i conti con un nemico che non conosceva, l’opinione delle persone, soprattutto quelle che gli gravitano intorno, divise tra il rispetto che si deve alla sua storia e lo scetticismo riguardo alle sue capacità manageriali. Deve essere dura sentirsi addosso il peso del giudizio e gli sguardi diffidenti, accogliere quella deferenza d’un tratto torbida, per uno abituato a riscuotere solo adorazione.
Così come deve essere dura non fare più tutto con naturalezza, come gli riuscivano le cose di pallone. La spontaneità, l’inventiva, la creatività che aveva sul campo sostituite dal pensiero continuo, dalla programmazione, dalle strategie: «Da giocatore riuscivi sempre a trovare qualche guizzo improvviso, questo nuovo ruolo è diverso: è più difficile».
Per l’eccezionalità della sua iconografia e per quello che rappresenta per tutti i tifosi romanisti, Totti potrebbe trascorrere i prossimi dieci anni passando le giornate con i piedi sulla scrivania a riguardare vecchi video delle sue imprese sul campo che il suo culto resterebbe intatto. I 600 mila euro che da contratto riceve a stagione potrebbero essere serenamente un premio alla carriera, un omaggio alla leggenda, una sorta di ricco sussidio di ammirazione.
Tutti i miti decadono, s’imbolsiscono e perdono fascino. Totti no, perché al centro della sua narrazione c’è la purezza dell’amore, capace di corrompere il tempo. E allora deve rimboccarsi le maniche e dedicarsi alla sua amata, alla Roma, come ha fatto sempre, anche se in modo diverso.
Il primo gesto da dirigente che tifosi, media e pubblico percepiscono realmente come tale arriva lo scorso dicembre, nel post partita di Roma-Inter, quando Totti si presenta ai microfoni e con modi sobri ma perentori definisce vergognosa la mancata assegnazione di un evidente rigore ai danni di Zaniolo. Sebbene le polemiche sull’arbitraggio abbiano sempre il sapore un po’ provinciale del vittimismo di bassa lega, ci sono circostanze in cui prendere una posizione forte per tutelare la squadra da una possibile ingiustizia subita è necessario, soprattutto agli occhi dei tifosi, che sentono così rappresentata la loro rabbia in modo ufficiale. È un segnale che la società c’è, è presente e difende i suoi colori e il suo lavoro, il suo “peso” nella Lega.
E quella società, per la prima volta da quando non è più un giocatore, in quell’occasione ha il volto di Totti. Totti era di nuovo la Roma.
Un momento che forse è coinciso con una presa di coscienza. La definitiva accettazione, dopo diciotto mesi di silenzioso apprendistato vissuti defilato come un Bartleby, della sua nuova realtà. Il suo ruolo non è ancora definito, si muove sempre in una terra di mezzo, come quando galleggiava sulla trequarti avversaria, ma ha smesso definitivamente di piangere per il suo giocattolo perduto, di aggrapparsi a un’infanzia lunga quarant’anni.
Anche il portamento è diverso. Dentro quei vestiti non appare più impacciato e tenero come un bambino in blazer al matrimonio di un parente. Ora è autorevole e a suo agio. È lui, un mese dopo, a prendere in mano la situazione e stringere la squadra attorno a un Di Francesco bersagliato dalle critiche e ormai sul lastrico, a indicare la direzione verso la quale tutti dovevano remare, quella che il tecnico cercava ancora di seguire.
E la partita di Champions League a Porto, lo spirito e l’unione con cui i giocatori hanno affrontato quella che poi sarebbe stata l’ultima gara dell’allenatore abruzzese sulla panchina della Roma, nonostante la dolorosa eliminazione ha dimostrato che nessuno ha abbandonato la nave prima che affondasse, che il messaggio del dirigente Totti era arrivato a tutti, forte e chiaro. E porta sempre la sua firma, o quantomeno ha avuto un peso decisivo il suo parere, la scelta di Claudio Ranieri come traghettatore per questo finale di stagione.
Proprio nel momento in cui Totti ha deciso di calarsi una volta per tutte nei panni del dirigente e di staccare il cordone che lo teneva legato al campo sono arrivate le dimissioni del direttore sportivo Monchi. Nel vuoto progettuale che si è creato, Totti sembra pronto a ritagliarsi uno spazio importante, un ruolo preciso, e smettere così di essere “tutto e niente”, come aveva dichiarato all’inizio della sua avventura.
L’opzione al momento più accreditata è quella di direttore tecnico, colui, cioè, che insieme al direttore sportivo individua sul mercato i giocatori migliori per la realizzazione del nuovo progetto tecnico e con cui lo staff si confronta continuamente. Totti avrebbe così l’opportunità di saziare la sua sete di campo vivendo a stretto contatto con la squadra, e allo stesso tempo di appoggiarsi al suo potere decisionale e alla sua conoscenza calcistica per stabilire da chi quella squadra dovrà essere composta per raggiungere determinati obiettivi. È proprio lui che, di recente, con una sfrontatezza fino ad oggi sconosciuta, si è candidato come padre della rinascita romanista: “se guadagnerò posizioni di certo cambierò qualcosa che non ha funzionato, ne ho già parlato con chi di dovere”.
All’orizzonte si profila un nuovo scontro con Franco Baldini – che Totti stava già portando alle dimissioni dopo averlo indicato tra i principali responsabili del suo addio al calcio- , intenzionato, pare, a stravolgere l’assetto societario portando a Trigoria il ds portoghese del Lille, Luis Campos, e il capo scouting dell’Arsenal, Sven Mislintat. Una sfida interna che, tuttavia, non sembra la più dura che Totti si troverà ad affrontare.
Molto più ostica sarà quella con se stesso. Con il rapporto che con le sue doti ha sempre intrattenuto. Totti dovrà scacciare ogni paragone con il sé giocatore e combattere con l’idea di riuscire a incidere come faceva con le sue giocate. L’ambizione di ottenere successi da dirigente dovrà erigersi sulla consapevolezza di non poter essere decisivo come lo era sul campo.
Se prenderà atto di questo fisiologico ridimensionamento, se ospiterà questa nuova forma di realizzazione umana, Totti potrà correre a briglie sciolte, ora che il suo peso nella Roma sembra cambiato, ora che lui è cambiato. Due anni dopo aver salutato il calcio, ha detto addio anche al bambino che c’è in lui. Ora il Pupone vuole crescere.