La squadra cilena fondata da rifugiati è tornata a giocare la Libertadores. Ed è riuscita a fermare i campioni del River Plate in un match surreale
Negli ultimi 41 anni sono riusciti a vincere soltanto una Coppa del Cile. Eppure non sono molti i tifosi rammaricati per la mancanza di successi sportivi. Perché il Deportivo Palestino è soprattutto un simbolo. Un ideale in maglia e pantaloncini che di tanto in tanto riesce a ritagliarsi uno spazio in qualche ritaglio di giornale.
Proprio come è successo a metà marzo, quando la squadra di Santiago del Cile è tornata a giocare la Libertadores. Per arrivarci, Los Arabes avevano dovuto superare un doppio turno preliminare. Prima contro l’Independiente Medellín, poi contro gli argentini dell’Atlético Talleres. Ma la parte più difficile doveva ancora arrivare. Il Palestino, infatti, si è ritrovato improvvisamente catapultato nel Gruppo A del trofeo Conmebol insieme a Internacional di Porto Alegre, River Plate e Alianza Lima. Un girone difficile, dove i cileni sembravano destinati al ruolo di comparse.
Un copione confermato nella gara inaugurale, quando i brasiliani si sono imposti 0-1 senza troppi problemi. Poi, però, ecco la svolta che non aspetti. Nella seconda giornata, i cileni fanno visita al River Plate. I campioni in carica. Quelli che hanno alzato al cielo la coppa battendo proprio i cugini del Boca. Si gioca al Monumental. Senza pubblico. Colpa degli incidenti che hanno martoriato la doppia finale fra i due club di Buenos Aires dello scorso anno.
Niente cori. Niente fischi. Niente colori. Soltanto il respiro affannato di 22 giocatori coperto dalle grida dei due allenatori. Per capire che sarà una vera e propria battaglia bastano undici secondi. Più o meno il tempo che il centrale del River Javier Pinola impiega a falciare sulla trequarti Julian Fernandez. Cartellino giallo e tanti saluti ai convenevoli. Sudor y lágrimas. Per novanta minuti più recupero. Un corpo a corpo fra i seggiolini vuoti che nessuno sembra in grado di vincere. Non perché manchino le occasioni. Anzi, al 30’ un altro Fernandez, che di nome fa Ignacio e veste la maglia bianca con la banda obliqua rossa, spara alto a un passo dalla porta. Con il portiere del Palestino già a terra.
Al fischio finale è 0-0. E il Palestino, dove giocano gli “italiani” Luis Jimenez e Cristóbal Jorquera, può coltivare ancora il sogno di superare il girone. Nonostante le zero reti realizzate in due partite.
Prima della sfida del Monumental, il Deportivo Palestino aveva fatto parlare di sé per motivi molto diversi. Nel gennaio del 2014, infatti, la squadra cilena aveva apportato una particolare modifica alle proprie maglie. Per tre partite, sulla schiena dei calciatori il numero 1 era stato rimpiazzato dalla mappa della Palestina nella sua forma antecedente al 1946, anno di nascita dello stato di Israele. Una premura che non era piaciuta né alle organizzazioni ebraiche cilene, né alla Federazione, che decise di multare il club perché contraria a ogni forma di discriminazione politica, religiosa, sessuale, etnica, sociale o razziale. Troppo poco per sventare un incidente diplomatico, con il ministro degli Esteri israeliano che richiamò i suoi ambasciatori in Cile.
Poco dopo il presidente dello Stato di Palestina, Mahmud Abbas, inviò un messaggio ai giocatori e ai tifosi del club, affermando che la squadra cilena è «la seconda selezione nazionale per il popolo palestinese». Un concetto ribadito nei giorni scorsi anche da Anuar Majluf, direttore esecutivo della comunità palestinese cilena. «Ogni grido esultanza dopo un gol – ha detto – è un grido per affermare che siamo vivi. Quando ero più giovane sognavo queste partite quando giocavo a Fifa o a Winning Eleven, ma non avrei mai pensato che saremmo arrivati fino a qui».
Il Deportivo Palestino, pur evitando di trattare direttamente tematiche politiche, è l’unico club al mondo con un’identità così forte. Fondato nel 1920 da un gruppo di immigrati, vuole rappresentare un pezzo di Palestina a 13mila chilometri dalla Palestina. Una conseguenza naturale, visto che la comunità palestinese in Cile conta circa 500mila unità. Frutto di un flusso migratorio diventato molto importante fra il 1900 e il 1930. Tanto che, a inizio secolo, i periodici scritti in arabo erano più di quelli in lingua spagnola (5 a 4). La nascita di un club che rappresentasse questa comunità così coesa era la conclusione logica di un processo storico. Così come è naturale che la bandiera della Palestina sia diventata l’emblema stesso del club. I suoi quattro colori compaiono tanto nello scudetto quanto sulla divisa, e non è raro che sulla maglia compaiano scritte in arabo.
Una storia così particolare da trovare spazio in un documentario. Intitolato, ovviamente, “Quatro colores”.
foto: Getty Images