Lo sport iracheno nelle mani di Hammoudi

Confessioni dell’ex portiere Raad Hammoudi, idolo in campo, costretto all’esilio per essersi ribellato alla ferocia di Uday Hussein e ora presidente del Cio nazionale: «Fino a quando una bandiera irachena sventolerà in uno stadio morti e sacrifici non saranno stati vani»

Oggi è il presidente del Cio iracheno, ma negli anni ottanta è stato uno dei migliori portieri del panorama asiatico. Almeno fino a quando la famiglia Hussein non si è messa di traverso, rovinando tutto. A distanza di quasi trent’anni Raad Hammoudi ha deciso di raccontare il suo calvario.

Nel 1988, all’apice della carriera, fu costretto a rinunciare alla gloria e alla popolarità per mettersi in salvo con la sua famiglia. Raad aveva trovato il coraggio di ribellarsi a Uday Hussein, il sanguinario primogenito del dittatore Saddam Hussein. «Gestiva un giro di scommesse sul campionato di calcio – confessa Hammoudi – e ovviamente truccava l’esito delle gare intascando somme di denaro esorbitanti. Un giorno mi convocò nel suo ufficio chiedendomi di addomesticare il risultato di una partita. Naturalmente rifiutai, e da quel giorno la mia vita si trasformò in un inferno».

Raad pagò il suo gesto con la fuga. Prima a Winnipeg, in Canada, dove viveva una nutrita colonia di esuli iracheni, poi ad Amman, in Giordania. «Senza poter più giocare a pallone – racconta a malincuore – perché per il governo iracheno ero considerato alla stregua di un terrorista, un sovversivo. Mi negarono il transfer affinché nessun club all’estero potesse tesserarmi». Quindici anni di limbo sportivo, concluso solo nel 2003, dopo la caduta del Rais.

Hammoudi

Raad Hammouni era stato uno dei pezzi da novanta del calcio iracheno: aveva vestito per tredici stagioni la maglia dell’Al Shoorta e indossato la casacca della nazionale irachena (104 gettoni) ai Mondiali messicani del 1986. «Al ritorno in patria trovai un Paese in ginocchio. Distrutto dal conflitto, annientato nei propositi e lacerato nell’animo». Eppure, nonostante le bombe, il sangue a fiumi e gli attentati, i ragazzini giocavano a pallone tra le macerie. «Lo facevano al cospetto dei soldati americani e inglesi che osservavano divertiti le loro improvvisate partite».

Sono state queste immagini che hanno innescato nel cuore di Raad il desiderio di fare qualcosa di importante per lo sport dell’Iraq. Decise quindi di contattare alcuni reduci della squadra che giocò i mondiali in Messico, per tracciare insieme a loro la nuova mappa del calcio iracheno e fare in modo che il pallone diventasse uno strumento di rinascita.

«Abbiamo bonificato i campi sportivi che erano stati requisiti dall’esercito americano, e grazie al sostegno di un’azienda giapponese siamo riusciti a procurarci palloni e materiale sportivo. Abbiamo persino fatto leva sull’amor di patria, convincendo a rientrare a Baghdad alcuni professionisti che durante il conflitto erano emigrati in Arabia Saudita, Qatar e Siria».

Un lavoro spossante che però ha prodotto ottimi frutti. Quando nella primavera del 2004 l’Al Zawraa, la squadra più popolare della capitale, e il Samarra, si sono affrontati di fronte a cinquemila spettatori, in molti hanno gridato al miracolo. Un prodigio che ha avuto riflessi anche sulla nazionale: splendida protagonista del torneo olimpico di Atene nello stesso anno, e campione d’Asia nel 2007 in Indonesia.

Raad è diventato ancora una volta l’eroe più acclamato, come quando da calciatore strappava applausi e ovazioni da ultima e inaccessibile sentinella della selezione irachena. Fino alla tragedia di Toluca, in Messico, sede del ritiro iridato degli iracheni. «Uday Hussein guidava la nostra delegazione e si macchiò di ogni genere di crimine. Costrinse con minacce e pestaggi alcuni giocatori a passare nell’Al Rasheed, la squadra di cui era tifoso, e che conquistava titoli nazionali a ripetizione. Consentì ad altri di espatriare, solo a fronte del pagamento di metà degli stipendi che avrebbero percepito».

Nonostante il clima infernale Raad in quei giorni venne avvicinato da emissari del Flamengo, determinati a portarlo a Rio de Janeiro. «Sarebbe stata la svolta professionale della vita, ma Uday decise per me. Decise che non se ne sarebbe fatto nulla».

Nell’aprile del 2009 Raad è diventato presidente del Comitato Olimpico. L’obiettivo più importante è conquistare tra un anno a Tokyo la seconda medaglia della storia irachena a cinque cerchi, dopo il bronzo di sessant’anni fa a Roma di Abdul Wahid Aziz nel sollevamento pesi. «Siamo passati dalla dittatura di Saddam alla lacerazione del Paese per via del Califfato Islamico. Nonostante tutto siamo ancora in piedi. Fino a quando una bandiera irachena sventolerà in uno stadio vorrà dire che morti, sacrifici e sofferenze non sono stati vani».

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