Oleg Salenko, l’ultimo dei sovietici

Ogni volta che si parla di Oleg Salenko si parla di un uomo che ha scritto al storia con i 5 gol segnati conto il Camerun a USA 1994. Ma Salenko è anche un uomo che la Storia l’ha subita. Figlio di di padre ucraino e madre russa, in un momento molto particolare ha dovuto scegliere a tavolino la sua identità

Citare il suo nome produce un riflesso pavloviano. Se lo stimolo è “Oleg Salenko”, la risposta è “cinque gol”. Se poi ci si trova in un anno mondiale, ecco lo spunto è il pretesto per il consueto pezzo scritto – per inciso: l’ha fatto anche chi firma queste righe – e riscritto, letto e riletto, non di rado anche copiato, sull’uomo che ha trasceso le cronache e i tabellini del pallone per entrare nell’iconografia calcistica grazie alla cinquina rifilata al Camerun a Usa ’94 con la maglia della Russia. Una partita inutile, una sfida perfetta per abbattere record senza far male a nessuno e raccontare, invero con scarsa fantasia, di lui e di Roger Milla, del capocannoniere per caso e del vecchio leone, bla bla bla.

Oggi, nel giorno del suo cinquantesimo compleanno e con i Mondiali a debita distanza, può valere la pena di approcciarsi a Oleg Salenko sotto un altro punto di vista, più civile in senso lato, perché la sua figura di calciatore, inserita in un contesto fondamentale del Novecento, porta ad interrogarsi su temi tutt’altro che banali sui quali la narrazione delle sue gesta non si è mai soffermata. Negli articoli degli aedi e dei nostalgici, Salenko è un attaccante che ha fatto la storia – quella retorica in cui si abusa di maiuscole –, qui invece è solamente un uomo che la storia l’ha vissuta sulla propria pelle.

È la vicenda di vita di un ragazzo nato a Leningrado quando era Unione Sovietica, come Unione Sovietica era Kiev, dove si trasferì nel 1989 per giocare nella Dinamo di Lobanovsky, facendosi vedere anche nella nazionale giovanile dell’Urss. E se vita e carriera andavano avanti in un percorso intrecciato, l’Unione Sovietica no. Gli Stati federati iniziavano a dichiarare l’indipendenza, erano stati sciolti il Comecon e il Patto di Varsavia, il colpo di Stato agostano era sì fallito ma l’Urss si stava dissolvendo. L’estate di Boris Eltsin, l’occaso di Gorbačëv, ultimo indirizzo di un mondo che fu.

Tu ora cosa sei, Oleg? Sei russo? Sei ucraino? In quel momento è un po’ come chiedere a un bambino se vuole più bene alla mamma o al papà. Letteralmente, perché Oleg è figlio di padre ucraino e madre russa. Cosa sei, Oleg?

Come se fosse univoca, l’identità individuale. Non multiforme, relativa, plasmata dagli eventi. Oleg è ucraino, perché il 9 aprile 1992 è in campo nella gara di debutto della prima selezione ufficiale della neonata federcalcio di Kiev, e già questo ha un potenziale simbolico altissimo. Oleg è russo, perché un anno e spiccioli più tardi lo si può vedere esordire nelle qualificazioni al Mondiale americano con la nazionale di Pavel Sadyrin, e poi arrivarci negli States. Tu cosa sei davvero, Oleg?

Forse, solo un ragazzo che pensa al suo futuro, ai suoi sogni, e deve vedersela con i palazzi – pure quelli dello sport – che gli forniscono nuovi documenti e lo incasellano in nuove categorie. Ma Oleg, a differenza di altri, ha la fortuna di potere scegliere. Se proprio vive un conflitto interno, è a bassa intensità: vince la ragione, non l’ideologia. «Un calciatore non può sedersi e aspettare, non ha senso», avrebbe raccontato poi in una intervista al portale Sport.ua.

L’Ucraina, intesa come nazionale, c’era ma era come se non ci fosse: non prendeva parte alle qualificazioni iridate, e tanto bastava. La Russia sì, e qual è il giocatore che non fantastica di vedersi al Mondiale e magari diventarne il miglior marcatore? Poi succede che il sogno si realizza, e pazienza se lo zenit – per una vecchia antipatia col nuovo ct Romancev – rappresenta anche l’ultima avventura nazionale del Salenko russo. Ora Oleg è libero di tornare ad essere considerato ucraino, e del resto in Ucraina vive da quando ha chiuso con il calcio giocato. E allora cosa sei, Oleg?

Sei l’ultimo dei sovietici, in senso sociale ancor più che politico. Uno al quale le istituzioni hanno voluto dare una nuova cittadinanza, uno orgogliosamente ucraino e orgogliosamente russo perché né ucraino né russo. Fa ancor più specie pensarlo oggi, cinque anni dopo l’inizio del conflitto in Donbass, capace quest’ultimo di riportare agli onori delle cronache europee anche Oleksandr Zavarov, chiamato alle armi nel 2015 assieme all’ex portiere Yuriy Sivukha – entrambi allora nello staff della nazionale ucraina – per combattere i filo-russi. 53enne Zavarov, 57enne Sivukha.

Si espose l’ex juventino: «Non farò mai la guerra là dove vivono la mia famiglia e i miei figli, dove sono sepolti i miei genitori». Nati sovietici e rimasti tali, qualsiasi cosa indichi il passaporto, qualsiasi sia la nazionale di cui si sono vestite le divise. L’identità è qualcosa di troppo profondo e personale per adattarsi a schemi e modelli. Come, in fondo, anche un’esistenza e una carriera non possono risolversi in un episodio. Anche se quel giorno di gol ne hai fatti cinque in un colpo solo e in un Mondiale.

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