Il messaggio di autoreferenzialità che ha sempre lanciato e la sua immagine ronaldocentrica del gioco e del mondo, hanno spesso crepato il suo simbolismo agli occhi di chi nello sport ricerca miti inclusivi.
Troppe voci, troppe critiche, troppe accuse erano piovute sulla sua testa dopo la qualificazione Champions raggiunta sul gong dalla Juve senza che lui avesse partecipato all’impresa nell’ultimo e decisivo atto del campionato. Ronaldo, più che mai, aveva bisogno di tutelare la sua grandezza. Lo ha fatto nei giorni seguenti attraverso Instagram. Prima una foto in bianco e nero in cui porta l’indice al naso per zittire tutti. Poi un lungo post autocelebrativo in cui espone con orgoglio l’ennesimo record personale raggiunto, quello di aver segnato 100 gol in ognuno dei tre grandi campionati in cui ha giocato. È il Ronaldo che ben conosciamo. Quello che non perde occasione per gonfiare il petto ed evidenziare i suoi traguardi. Quello costretto a difendere una leggenda – la sua – che dovrebbe parlare da sé. Quello con 290 milioni di persone che lo seguono su Instagram, eppure che non si sente amato. Almeno non quanto meriterebbe qualcuno che ha fatto quel che lui ha fatto.
È una storia vecchia, iniziata più o meno con la sua esplosione nel calcio mondiale. Dopo la finale di Champions League vinta nel 2008 dal suo Manchester United contro il Chelsea, Ronaldo se ne stava in mezzo al campo con l’aria triste. Aveva segnato un gol di testa nei minuti regolamentari, ma arrivati ai rigori aveva calciato il suo addosso a Cech. Aveva 23 anni e la più prestigiosa medaglia d’oro al collo per quanto riguarda i club, ma non sembrava felice. Da quel momento in poi, il sospetto che i traguardi personali contassero più di ogni altra cosa si è fatto sempre più strada. Di anno in anno, conquista dopo conquista, è diventata la lente attraverso cui osservare ogni suo gesto, dallo stile di gioco individualista alle esultanze tronfie in cui mostrava i muscoli. Il suo aspetto curato e luccicante, poi, contribuiva ad alimentare l’immagine del divo vanaglorioso, quello che agli occhi dei puristi o presunti tali, provoca facilmente quel genere di antipatia che questa descrizione del Der Spiegel spiegava piuttosto bene: «Con il gel nei capelli, i diamanti nelle orecchie, i balletti con la palla e il sorriso arrogante, Ronaldo sembra proprio uno a cui serve essere picchiato».
Già da piccolo, Ronaldo reagiva male quando si sentiva trattato ingiustamente. Schiaffeggiava gli altri bambini. Una volta ha tirato una sedia addosso a un insegnante. Da fenomeno del calcio globale, non potendo più ricorrere a questa violenza puerile, ha iniziato a difendersi dando la colpa all’invidia sociale: «La gente mi odia perché sono ricco, bello e un grande giocatore. Non c’è altra spiegazione». Sua madre, Maria Dolores, dice che Cristiano è sempre stato così, che non intende fare del male. Nemmeno il loro rapporto, dolce e centrale nella narrazione mediatica di Ronaldo, è stato utile per aumentare il calore che così difficilmente il portoghese riesce a emanare.
Il solipsismo in cui ha intinto la sua carriera non ha mai scaldato il cuore dei romantici, costretti a celebrare il successo perdurante di un uomo che prima di tutto, sopra tutto, ha sempre pensato a se stesso, interpretando il successo collettivo come gloria personale e specchiandosi ogni mattina nei palloni d’oro che via via andavano riempiendo il salotto della sua villa. Come sportivo, Ronaldo ha fatto moltissimo per conquistarsi il rispetto e la venerazione degli appassionati di calcio. Ma il messaggio di autoreferenzialità che ha sempre lanciato, la sua immagine ronaldocentrica del gioco e del mondo, hanno spesso crepato il suo simbolismo agli occhi di chi nello sport ricerca miti inclusivi.
In un articolo pubblicato tre anni fa su Vanity Fair, lo scrittore e tifoso del Real Madrid Javier Marias, commentava così l’addio di Ronaldo: «Si sarebbe dovuto dedicare a uno sport individuale, e tuttavia gli è toccato distinguersi in un gioco collettivo, un impiccio per lui. È una perdita, senza dubbio, eppure, dal punto di vista sentimentale, nemmeno un secondo di disappunto, di nostalgia, nemmeno un solo pensiero cupo sulla fugacità di ogni cosa». Queste parole, con cui un illustre tifoso salutava un giocatore che ha portato alla causa del suo club 450 gol in 438 presenze, molti dei quali decisivi per la conquista di due campionati, due coppe di Spagna, tre mondiali per club, quattro Champions League e altri trofei, dicono molto delle difficoltà di Ronaldo nel farsi amare. Zidane, dopo una partita in cui i tifosi blancos avevano fischiato Ronaldo, ha detto che Cristiano meriterebbe più rispetto. In un’intervista ad Afa Play, Paulo Dybala ha raccontato la confessione fatta a Ronaldo in uno dei primi colloqui avuti con il portoghese: «Cristiano, in Argentina ti odiamo un po’ per il tuo personaggio, un po’ per come sei, e anche un po’ per come cammini».
Anche lo stellare dualismo con Messi non l’ha aiutato. Da una parte l’argentino, con il suo talento puro e il suo carattere schivo, che coltiva il suo mito senza boria e valorizzando i compagni. Dall’altra l’immagine di un fenomeno costruito allenamento dopo allenamento, un uomo-macchina che soddisfa la sua ambizione servendosi degli altri, che costruisce musei tematici interamente dedicati a sé e alla celebrazione del suo culto come quello fatto realizzare a Funchal, in Portogallo. Benché non siano pochi quelli che tra i due scelgono Ronaldo, è semplice capire chi susciti meno empatia.
Ronaldo si è sempre servito di questo diffuso disamore come spinta per raggiungere nuovi traguardi. Esattamente come l’eterno confronto con Messi, è stato il motore che ha spinto la sua ossessione a essere identificato come Il Migliore. In più occasioni ha mostrato una malcelata insofferenza per non riuscire ad avere una presa universale sugli appassionati. Nel percepire che la sua maestà veniva riconosciuta ma non accompagnata dalla giusta dose di amore e devozione. Ai suoi detrattori, tuttavia, toccava fare i conti con i trofei che continuava a collezionare, i record che non smetteva di demolire, e, in generale, con la sua perpetua infallibilità. Toccava dire ok, Ronaldo non mi scalda il cuore, ma è un giocatore fenomenale, un alieno.
Quest’anno, forse per la prima volta, le cose sono andate diversamente. Ronaldo ha comunque lasciato il segno: due trofei, 36 gol in 44 partite con la Juventus, miglior marcatore delle Serie A e undicesima stagione consecutiva sopra i 40 gol. Ma un finale incolore, vissuto con freddezza e distacco, e soprattutto la tumultuosa uscita dalla Champions, hanno portato la disaffezione verso Ronaldo a un’altra dimensione.
Proprio l’eliminazione con il Porto ha aperto le porte a uno scenario nuovo. Zero gol in 210 minuti in un confronto a eliminazione diretta di Champions League. Continue sbracciate di lamento verso i compagni, occhiate ai tacchetti dopo banali errori tecnici, la reazione tiepida, quasi stizzita, con cui ha accolto il secondo gol di Chiesa, “colpevole” di avergli rubato il proscenio; l’evanescenza continua, interrotta nel modo peggiore possibile: voltando pigramente le spalle in barriera, su un calcio di punizione prematuramente giudicato velleitario.
Il volto amaro di Ronaldo campeggiava sulle prime pagine sportive di tutto il mondo. I titoli che lo accompagnavano evocavano immagini crepuscolari. “Buio”, “Flop” “Addio” “Peso” “Rebus”. Un glossario con cui non ha mai avuto grande confidenza. Fallimento è la parola, o meglio il nucleo delle critiche piovutegli addosso come le rane in Magnolia. E fallimento è una parola che nel vocabolario di Ronaldo è difficile trovare. Sui giornali, nei social media, nelle chat whatsapp che erano i bar in tempo di pandemia, più o meno tutti hanno associato la parola fallimento a Cristiano Ronaldo. E in molti casi il tono di questo strambo connubio era venato da una sottile eccitazione. Una gioia maligna e silenziosa accompagnava le note del de profundis.
Nel concerto di voci sollevato dalla sua caduta, non c’è stata traccia di quella malinconia che solitamente accompagna la presunta uscita di scena dei più grandi. Di quella tenerezza che suscita non vederli più brillare come un tempo. Al contrario, le reazioni più o meno trasversali al suo “insuccesso”, sono apparse come una manifestazione purissima di shadenfreude. Se a Doha, pochi mesi fa, tutti aspettavano il ritorno in campo del 40enne Federer con la speranza di vedere la sua eleganza dominare ancora e vincere sul tempo, nel caso di Ronaldo l’attesa sembrava più segnata dalla brama di celebrare la sua decadenza. La sua sagoma disperata che alla fine della partita con il Porto si aggirava sconsolata per il campo con gli occhi smarriti e le mani intrecciate dietro la nuca, ha raccolto pochissima solidarietà.
Se da un lato può essere consolatorio sapere che la caducità sia il buco in cui chiunque, anche gli esseri umani apparentemente così distanti e irraggiungibili prima o poi finiscano, dall’altra la mancanza di empatia verso il crollo di un gigante è stato il riflesso di un sentimento di ostilità che da più di 15 anni contraddistingue l’iconoclastia di Ronaldo. Chi è, Ronaldo, per una larga fetta di appassionati di calcio? Solo un tiranno che ha cannibalizzato il gioco nell’ultimo ventennio? Un nemico sublime? Cosa sono state le sue prestazione epiche, le imprese leggendarie, le rovesciate in quello stesso stadio che poi lo ha accolto, parentesi di un’epoca segnata da un magnifico stronzo?
È presto per capire se Ronaldo, a 36 anni, abbia imboccato il viale del tramonto. I numeri che continua a registrare fanno pensare che il tempo di essere protagonista non sia ancora finito. Continuerà a sottolinearli e a metterli in mostra, a difendersi da chi non lo amava quando dominava, e da chi guarda al suo invecchiamento con un ghigno maligno. Sempre diviso tra orgoglio e sofferenza.