L’attaccante vive un rapporto di alti e bassi con la sua Napoli. Forse, per comprenderne davvero tutto il potenziale, avremmo dovuto vederlo con un’altra maglia
C’è uno spazio, un qualche recondito accesso delle nostre menti, in cui dimorano le domande destinate a restare senza risposta, le suggestioni più particolari. Quesiti come “che cosa sarebbe successo se la Germania avesse vinto la Seconda Guerra Mondiale?”; “che mondo avremmo avuto se quel proiettile sparato da Lee Harvey Oswald non avesse trapassato il cranio di John Fitzgerald Kennedy?”; “Che effetto farebbe vedere Lorenzo Insigne giocare per una squadra che non sia il Napoli?”.
Per un attimo durato qualche settimana, a quest’ultima domanda, abbiamo pensato persino di poter trovare una risposta. Nelle ultime otto stagioni Insigne ha indossato solo diverse gradazioni di blu, dal celeste chiaro del Pescara, a quello un po’ più scuro del Napoli, fino all’azzurro della Nazionale. Vederlo con il rosso e il blu ancora più intenso del Paris Saint Germain sarebbe stato interessante. Magari anche una buona occasione per chiarirci definitivamente i dubbi su di lui, su che tipo di giocare è, sull’impatto che può generare all’interno di un club europeo di prima fascia.
E invece ci terremo il dubbio, perché Insigne ha gridato ai quattro venti che vuole restare e aspetta solo una chiamata di De Laurentiis per il rinnovo. Ha fatto pace con Ancelotti, che aveva moderatamente contestato dopo la sostituzione nella partita casalinga di Europa League contro l’Arsenal, e con quei tifosi che l’avevano fischiato. Lorenzo lo sa, Napoli è così, passionale e passionaria. Lo sa perché ci è nato e cresciuto, se la porta dentro, non può farne a meno.
Lui ama loro e loro amano lui, anche se hanno un modo tutto particolare di dimostrarlo, sospesi come sono tra la voglia di un Masaniello autoctono che incanali il loro spirito revanscista contro il dominio dell’aristocrazia juventina e quella fascinazione mai sopita per il fuoriclasse venuto dall’estero, meglio se sudamericano, perfetto se argentino, capace di evocare il ricordo del Pibe, fosse anche solo per la lingua parlata, l’accento, la cadenza cantilenante.
Dicono che per un napoletano sia sempre più difficile imporsi nel Napoli e la storia di Fabio Quagliarella è lì a dimostrarlo. Lorenzo Insigne convive con questa realtà da sette anni, l’ha provata sulla propria pelle in campo e fuori, ha scoperto quanto Napoli possa essere una madre accogliente e al tempo stesso una vipera, una Medea capace di colpire i propri figli pur amandoli. Come quella volta in cui fu derubato per strada e il suo rapinatore gli chiese di dedicargli un gol.
Come ogni volta in cui il San Paolo lo ha contestato, per poi tornare ad abbracciarlo sempre, alla prima occasione utile. È accaduto anche dopo il rigore contro il Cagliari: lo stadio che invoca il suo nome, lui che mostra fiero la maglia col numero 24, la pace siglata ancora una volta, come nel 2014, dopo i fischi contro l’Athletic Bilbao e un’altra sostituzione accompagnata dalle polemiche.
È una questione di affetto, sì, ma anche di aspettative sfasate, perché ancora non abbiamo capito che giocatore è Insigne e l’impressione è che se solo riuscissimo ad accettarlo per ciò che è ce lo potremmo godere sul serio. L’abbiamo chiamato scugnizzo, quando scugnizzo non è mai stato, abbiamo caricato sulle spalle di un ragazzo timido e riservato, che fino a qualche anno fa sfuggiva ancora agli autografi, un peso troppo grande.
Gli abbiamo attribuito i galloni del salvatore della patria in almeno due occasioni, la prima durante Euro 2016, la seconda quando si è trattato di qualificarsi per i Mondiali del 2018. Pensavamo che potesse fare la differenza nella mediocrità generale, che dal nulla tattico e creativo si sarebbe inventato la giocata estemporanea, una di quelle che talvolta gli sono riuscite col Napoli: un movimento a rientrare e un assist per l’inserimento dell’esterno sul palo più lungo, o uno di quei tiri a giro copiati e incollati dal suo idolo Alex Del Piero.
Ma Insigne non è quel giocatore lì, se non fin troppo sporadicamente. È piuttosto ancora quel bambino che correva per i vicoli di Frattamaggiore, preso in giro per la statura, che andava a lavorare prima di entrare a scuola per comprarsi i parastinchi, che rincorreva e amava il pallone sopra ogni altra cosa, tanto da puntargli gli occhi addosso e non staccarglieli quasi mai, nemmeno quando sarebbe il caso di alzare la testa e guardare compagni, avversari, porta. Ha vissuto i suoi anni migliori con Zeman prima e Sarri poi, inserito in due sistemi offensivi sofisticati e perfetti, mandando a memoria movimenti e interazioni coi compagni, dialoghi e binari sulle assi con Ghoulam e Callejon.
Più di ogni altro Lorenzo ha patito l’addio di Sarri e il cambio di sistema, ha avuto una fase brillantissima in cui sembrava potersi riscoprire punta, quasi falso nueve, semplificando il suo gioco e toccando meno la palla ma in zone più calde del campo, poi si è nuovamente involuto patendo l’ascesa di Milik e nuovi meccanismi d’attacco. Ha vissuto una relazione con Ancelotti dalle fortune alterne, dalla sostituzione con abbraccio dopo il gol partita con la Fiorentina alla panchina punitiva con l’Atalanta dopo la crisi d’Europa League con l’Arsenal.
Ha pensato per davvero di poter lasciare Napoli, ha sentito le sirene qatariote del Paris Saint Germain, si è immaginato accanto a Neymar e Mbappé. Sembrava il logico epilogo di un’annata cominciata con l’ingresso nella sua storia di Mino Raiola, pronto a farlo muovere come è abituato coi suoi assistiti, a spuntare un ingaggio più elevato per lui e sontuose commissioni per se stesso. L’aveva pure detto, «so anche che ho ventotto anni e che possa capitare in carriera di ritrovarsi dinnanzi ad un’offerta irrinunciabile», e invece probabilmente non se ne farà nulla. Perché ama ancora troppo Napoli e quel suo modo d’essere, e perché un’altra curva che intona il suo nome e lo chiama Magnifico, forse, non la troverebbe in nessun’altra città del mondo.
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