Gambe storte, statura minuta e un talento anarchico difficile da inquadrare. Ecco come nelle notti magiche dei Mondiali del 1990 Pierre Littbarski è riuscito a diventare fondamentale per una Germania Ovest piena di muscoli
Pierre Littbarski è nato a Berlino Ovest nel 1960, quando ancora esiste per la città una geografia della punizione, quando le ceneri di Hitler spariscono nelle mani dei russi, quando del Reich rimane solo la mascella del führer, quando la città è divisa in quattro settori (statunitense, sovietico, francese, britannico), quando nascere a occidente della città tedesca è una fortuna e a oriente una scelta politica; lui, il giovane Pierre, di origine polacca, cresce meno del muro che dal 1961 comincia ad alzarsi tra due parti: Germania Ovest e Germania Est, capitalismo contro comunismo, benessere consumistico contro rigore del popolo.
Di slancio gli anni Sessanta passano, Kennedy è morto da tempo, i Beatles sono spariti, il Vietnam per gli Usa è ormai acido lisergico, l’Antiteater di Fassbinder finisce e Pierre, intanto, così piccolo (appena 1.68), gioca a pallone coi capelli tagliati alla Rod Stewart ma, soprattutto, anticipa il crine ingrifato del cantante dei Kajagogoo Christopher Hamill, in arte Limahl: biondo sulle punte arcuate e scuro tra orecchio e collo. Capelli che negli anni Ottanta diventano segno di un passaggio verso l’androginia, come dimostrano i tagli di Pete Burns dei Dead or Alive e di Boy George.
Pierre, nome francese ben poco teutonico, nome fuori dal coro di gutturali e suoni aspri, nome che plana delicato nella onomastica tedesca mentre la Germania è stordita dai colpi di mitra del terrorismo rosso della Raf (Rote Armee Fraktion) di Ulrike Meinhof e Andreas Baader. Littbarski è Nina Hagen nel calcio: irruenza, eleganza, irriverenza, voglia di stravolgere i rigidi canoni del calcio quando le difese erano cattive, durissime e spesso impunite. Littbarski rischia di essere aggredito a ogni tocco, perché il pallone viene strappato dai piedi spesso con un atto di prepotenza.
Bisognerebbe poi scrivere un trattato sulle sue gambe arcuate: così storte da rendere strabico l’avversario che non sa capire da che parte vada il pallone. La curva dal ginocchio in giù in certi momenti rasenta l’erba, piegandosi in modo tanto innaturale quanto efficace; la sfrontatezza del dribbling di Littbarski è spettacolo per chi guarda anche perché salta l’avversario con espressione ironica, il pallone stretto tra i piedi; lui, esile ala destra che porta nel suo corpo la tragica fragilità della Polonia, ha tecnica surreale e un dribbling che nella Germania Orientale sarebbe stato proibito per la sua geometrica anarchia, per la sua capacità di scardinare uomini e sistemi facendo a meno del sistema. Siamo dal lato del dadaismo calcistico, scomposizione del corpo e affermazione dell’arte del gioco mentre la Germania si scuote dal terrore e seppellisce chi lo provoca. Pierre Michael Littbarski diventa il confine tra Germania e Polonia, linea umana tra il passato e il presente:
forse in un giorno di pioggia, spiacevole,
ma in questo caso un rumorio di felicità
e poi l’a solo di corno,
seguito da un’ortensia, il più placido dei fiori,
che resiste nella pioggia fino a novembre,
sotto tono, sino alla fossa.
Scrive quel poeta grandioso che è Gottfried Benn nella poesia “Finis Poloniae”, celebre detto attribuito al generale Kosciusko nel 1794 mentre i russi stavano per dilaniare la Polonia. Littbarski è l’ortensia che resiste e lo fa con il suo gioco che mette insieme arroganza e allegria. La sua capacità di saltare l’uomo con doppio palleggio da un piede all’altro è impressionante, attivando un meccanismo a orologeria che lo fa muovere sul campo con felice follia. I tedeschi, in fondo, sono considerati logici, razionali, schematici e allo stesso tempo assai pratici, funzionali a un progetto e quando alla fine degli anni Settanta appare Littbarski, minuto, magro, scarruffato e polacco la Germania non si rende conto di avere un principio creativo, una condizione irregolare di stare in campo.
Ha giocato quasi tutta la sua carriera nel Colonia, dal 1978 al 1993 con una rapida parentesi a Parigi, per poi finire nel 1997 la carriera in Giappone, un anno dopo sarebbe finita per sempre la RAF con una lettera che appare un certificato di morte. Lui, però, Littbarski, continuando a muoversi tra bombe e dibattiti, è soprattutto il fenomenale calciatore della Germania Ovest, almeno fino al 1989, prima di vincere la contestata e noiosissima finale contro l’Argentina l’anno dopo, quando il muro ancora feriva la nazione pure se non separava più.
Nel luglio 1990 la Germania, sollevando la coppa, non era ancora ufficialmente riunificata, la Deutsche Wiedervereinigung (Riunificazione tedesca) avviene infatti il 3 ottobre 1990, quando la Repubblica Democratica è assorbita dalla Repubblica Federale Tedesca, mentre la settimana prima della finale è sancito il trattato sull’unione monetaria, economica e sociale. Littbarski, partendo da centrocampo, raccoglie un pallone qualunque e lo elabora, diventa una magia irreale, il suo dribbling è di quelli che poche volte si vedono sul campo e nel calcio degli anni Ottanta è lussuria che attraversa anche l’Italia di “Vattene amore” di Amedeo Minghi e Mietta e non salva l’Italia dal delitto di Via Poma.
La Germania dei muscolari Brehme, Klinsmann, Berthold non può fare a meno di Littbarski, che all’inizio è guardato con sospetto dal ct Beckenbauer: il polacco è quello che cambia gli schemi, li scarabocchia con le sue gambe storte, con il suo estro orientale pure se nato a ovest quando ancora c’era l’ovest. Lui è un’ala capace di fare cross perfidi, altezzosi, che guardano il compagno e disprezzano l’avversario visto come un fastidioso ostacolo da superare.
Eppure proprio per quel suo fisichetto striminzito da ragazzo l’Hertha Berlino lo ha scartato, come se i piedi contino meno, però il nonno lo ha cresciuto, seguito, amato, nonno che ricorda seppur in maniera diversa quello del grande scrittore austriaco Thomas Bernhard: Johannes Freumbichler, anch’egli scrittore, che avvia il nipotino irrequieto all’arte, alla scrittura e alla musica. Il nonno di Littbarski, convinto delle qualità di Pierre, lo porta al minuscolo Schöneberg (dal cui municipio, nell’allora Rudolph Wilde Platz, John Fitzgerald Kennedy pronuncia la celebre frase: “Ich bin ein Berliner”) e poi il berlinese Hertha Zehlendorf quando è ancora adolescente.
Nonostante il fisico, nonostante la diffidenza Litti, così viene chiamato, vuol dimostrare che il calcio non è solo uno sport nerboruto ma soprattutto creazione, arte, capacità inventiva come in Brasile dove certo la possanza fisica è un dio minore rispetto al talento e mette a sedere il belga Roger Van Gool, pagato un milione di marchi, che nel 1980 va via furioso. Nel dribbling di Littbarski c’è la gioia degli omini colorati di Keith Haring, una festa da cui nessuno è escluso, quando afferra il pallone non c’è solo la fame ma il bisogno di piacere a chi guarda, non dimentica mai infatti che c’è qualcuno che ha pagato per vederlo; il calciatore tedesco ricambia la generosità, gli manca l’egoismo dell’atleta moderno che mira solo al benessere proprio e spesso riduce lo sport a un accumulo tossico di mediocrità, noia e danaro.
Il rapper tedesco Dendemann ha dato il titolo a una sua canzone con il nome di Littbarski ma del calciatore non si parla, le rime raccontano altro, cose crude del vivere quotidiano come spesso accade nel rap; il calciatore rappresenta una condizione umana che sopravvive a un mondo che spreca quello che produce. Chissà che oggi Littbarski non prenda il pallone e si metta a calciarlo contro il muro di Berlino, facendolo rimbalzare di continuo e con il suo rumore assopire la città in un sonno che non abbia più il grigio autunno dei mattoni.