Se a salvarsi alla fine sarà il Genoa dovrà ringraziare l’istinto da scommettitore di Preziosi, che butta via gioielli, ma porta a casa tanta di quella bigiotteria che per una serata può andare anche bene
Scontri salvezza così decisivi non se ne vedevano da anni in serie A. La bava del già scritto non ha insozzato solo lo scudetto ma anche le ultime tre spesso erano già evidenziate in giallo fosforescente a ottobre. Ieri invece abbiamo assistito ad un Genoa-Lecce davvero classico da un certo punto di vista, ovvero uno scontro fra quasi ultime in cui c’era paura di tutto e la tensione si sentiva perfettamente, inframezzata dal silenzio dei tanti e dalle urla dei pochi che erano presenti al Ferraris.
A creare ancora più opposizione fra le due squadre la loro identità, distante anni luce. Il Genoa è la squadra dell’accumulo seriale di Preziosi, nella speranza, alcune volte anche ben riposta, che poi dall’ammasso viene fuori una pepita. Ieri schierava gente come Romero, Criscito, Schöne, Perin, Sanabria, calciatori che non immagini lottare per la salvezza in Italia. Dall’altra parte invece c’era il Lecce, il quale si è sempre affidato alle idee chiare (anche se non tante) di Liverani. E da lì è venuta fuori la costruzione di un gruppo con calciatori adatti ai compiti da svolgere.
La partita era decisiva non solo per i punti, ma anche perché in caso di arrivo in parità lo scontro diretto diventa determinante.
Il Genoa di Nicola si schiera con un attento 4-4-2, con Iago Falque esterno a destra, per poter infastidire Dell’Orco, mentre il Lecce si schiera con un 4-3-2-1 in cui Saponara, partendo da destra si accentra molto di più di Farias.
L’inizio del match dimostra subito cos’è la paura. Il Lecce, che in tutta la stagione ha cercato di costruire dal basso, grazie alle qualità di Mancosu e Saponara che scendevano molto per iniziare l’azione, ha cominciato fin da subito a lanciare lungo su Babacar. L’idea era trovare una via diretta per la punta e poi recuperare la seconda palla con le due mezzepunte. Il risultato è stato che in tutto il primo tempo il Lecce ha fatto 23 lanci lunghi (uno sproposito nel calcio contemporaneo), completandone solo 12, perché Babacar non riusciva a dominare fisicamente il duo Romero-Zapata.
Ah, abbiamo dimenticato di scrivere che c’era un campione in campo, considerando campione soprattutto colui che conosce il gioco nelle sue sfaccettature e si sa adattare, risultando sempre importante per la sua squadra. Il campione è un certo Goran Pandev, il quale capisce subito che, sfruttando il lavoro di sponda di Sanabria può mettersi fra Petriccione e i due centrali leccesi, in quella che viene definita zona 14, ovvero quella del numero 10 di una volta, e fare sfracelli avendo la fronte e non le spalle alla porta. Questa idea è premiata subito al 7’. Pandev disordina la difesa, palla a Sanabria, gol.
Messo così il Genoa l’avrebbe portata a casa con serenità, ma si infortuna Sturaro e in campo va Barreca. L’ex Juve era un grosso fastidio perché sempre presente fra le linee di passaggio delle mezzali leccesi, mentre l’ex Torino fa l’esterno classico, servendo a poco. Per questo motivo il Lecce inizia a costruire grazie a Donati, il migliore in campo ieri, il quale sale palla al piede nel mezzo spazio di competenza, fa giocare più liberi e in movimento attivo i due nella sua area di gioco, Mancosu e Saponara e fa collassare la difesa genoana sulla destra, liberando Barak e il centravanti (Lapadula per l’infortunato Babacar) sul lato debole. Il Lecce è molto più pericoloso e arriva al rigore. Mancosu, dopo aver sbagliato contro la Fiorentina, cambia la meccanica e sbaglia di nuovo. Qui i proverbi sulla strada vecchia per la nuova si sprecano.
Termina il primo tempo ed è bene sottolineare quanto è bravo e importante Schöne. La sua passing accuracy è del 95%, il Genoa ordinato è merito suo.
Il secondo tempo è molto più garibaldino per il Lecce e più disordinato per il Genoa. Con Pinamonti al posto di Sanabria, a Pandev non riesce più il gioco di sponda centrale, perché l’ex Inter svaria molto di più sull’esterno e costringe il macedone ad un lavoro spalle alla porta, dall’altra parte acquisisce un’importanza decisiva Saponara.Svaria molto di più, coprendo l’intera orizzontalità del campo e propone in continuazione con mezzala e laterale triangoli di gioco. Sono utili per liberare uno dei tre e proporre cross al centro, che a fine partita saranno ancora un numero altissimo, 29. Su uno di questi Mancosu beffa tutti e segna.
Dopo il pareggio il Lecce continua con la stessa tattica, ma Barak, a cui è destinata una funzione prettamente d’inserimento, non riesce a trovare mai la porta.
Tutto questo fino al 35’, quando le due squadre crollano senza più forze.
E qui torna l’accumulo seriale di cui sopra. Dalla montagna di calciatori che ha in rosa, Nicola prende Filip Jagiello, lo schiera in posizione di mezzala e il polacco capisce con grande intelligenza pratica che può portare palla quanto vuole, perché le chiusure di Petriccione e delle due mezzali iniziano ad avere tempi più slabbrati. Dopo una nuova ricezione esterna di Pinamonti, il centravanti guarda Jagiello libero fuori area. Il polacco ha il tempo di aggiustarsi per il tiro e mirare alla perfezione. Il tiro è così perfetto che prende il palo (Gratton a Salerno negli anni ’60 diceva a tutti che i tiri buoni sono quelli che prendono pali o traversa), rimbalza su Gabriel e il Genoa vince la partita.
Se a salvarsi alla fine sarà il Genoa dovrà ringraziare l’istinto da scommettitore di Preziosi, che butta via gioielli, ma porta a casa tanta di quella bigiotteria che per una serata può andare anche bene. Se a salvarsi alla fine sarà il Lecce deve ringraziare la sua voglia di provarci, anche contro il destino e gli infortuni. La partita è finita, ma non è ancora finita.