Il Sarri dei primi sei mesi alla Juventus, così pacato e misurato, lontano dalla retorica rivoluzionaria degli anni napoletani, è solo il prodotto del suo percorso. Anche il suo calcio è più paziente, perché sa che il cammino per raggiungere l’agognata identità questa volta è più comodo
Dovevamo capirlo il giorno stesso della presentazione. Il Maurizio Sarri allenatore della Juventus, non sarebbe stato il Maurizio Sarri allenatore del Napoli. Non per incoerenza, ma per l’adattabilità a cui ogni uomo intelligente sa ricorrere per affrontare il suo percorso professionale e umano. Abituati a pensarlo come uomo all’opposizione, ci aspettavamo, almeno all’inizio, di vederlo a disagio nel ruolo di uomo al potere.
E invece tutta la retorica rivoluzionaria che l’ha accompagnato nei ruggenti anni napoletani, si è dissolta nell’immediata armonia con l’aria del Palazzo, nella lucidità delle sue dichiarazioni, rivelandosi per quello che sotto sotto è sempre stata: una strategia come un’altra per provare a fare ciò per cui ogni allenatore lavora ogni giorno, vincere.
Certo c’era anche il cuore di mezzo. L’utopia del Comandante inneggiato dal popolo azzurro non faceva leva solo su una fredda campagna studiata a tavolino per creare l’epos utile a compiere un’impresa di quella portata. Il coinvolgimento emotivo era forte, la missione era piena di trasporto umano. Tutte cose che Sarri, nel corso di quella conferenza, non ha rinnegato, ma nemmeno enfatizzato per strizzare l’occhio a chi da quel momento lo vedeva come un traditore.
E sebbene qualche idealista abbia faticato ad accettare il sodalizio Sarri-Juventus, presunti rappresentanti di mondi inconciliabili, presto avrà dovuto riconoscere che non è così strambo come lo si poteva immaginare. E che le etichette, come al solito, non sono altro che semplificazioni.
Fossimo stati più acuti, il giorno di quella presentazione avremmo capito che, prima di tutto, – forse solo dopo la passione per il calcio – , per Sarri viene il rispetto per la sua biografia. Se vederlo così mite, perfettamente padrone della situazione, perfino elegante nei toni e nei modi con cui si era presentato alla stampa aveva destato una certa impressione – almeno per come avevamo imparato a conoscerlo –, oggi, sei mesi dopo, quel giorno appare come una rivelazione.
Quella manifestata in quell’occasione, infatti, è la stessa forza calma, autorevole e misurata di questi primi mesi di lavoro sulla panchina bianconera, in aperta antitesi con il fuoco che lo animava ai tempi di Napoli, e che spesso infiammava comportamenti eccessivi, gestacci al pubblico, dichiarazioni caustiche.
Un cambio di paradigma che non è solo l’adeguamento a uno stile, nel caso specifico a uno stile radicato e riconoscibile come lo stile-Juve, dove una certa esuberanza è meno concessa e dove è necessario rispettare un vademecum comportamentale. E nemmeno perché qui, per vincere, non occorre servirsi di una comunicazione urlata utile ad alimentare narrazioni come l’attacco al potere o il debole che prova a battere il più forte. Il Sarri che ha indossato con disinvoltura il pullover casual-chic e appare sempre pacato e controllato, è il prodotto del suo percorso.
La tranquillità con cui sta gestendo un incarico così prestigioso, è l’afflato dell’orgoglio verso se stesso. La Juve è il coronamento di un tragitto lungo e tortuoso, partito dal gradino più basso e giunto all’élite del calcio europeo. Sarri non può dimenticare i campi in terra e le tribune deserte, i palloni sgonfi e i personaggi bislacchi incontrati lungo la strada, e arrivato qui, ora, non può far altro che godersi la sua straordinaria conquista, come un uno scalatore che, arrivato in cima alla montagna, si siede sulla roccia e con i con i gomiti sulle ginocchia osserva compiaciuto il panorama.
Smacchiando in parte un passato che lo identificava, per excursus e ideali politici, distante dagli ambienti autoritari, Sarri si è calato senza imbarazzo nella parte di uomo del Palazzo. Tuttavia l’impressione è che sembri vivere quest’avventura con maggiore distacco emotivo rispetto al passato. Che sia qui per portare la rivoluzione richiesta dalla società, senza però contorcersi le budella nel tentativo di realizzarla. In qualche modo è come se per sedersi sulla panchina della Juventus Sarri avesse rinunciato a una parte di se stesso.
Questo, è evidente, non si traduce in minore impegno o meno dedizione – l’ambizione di vincere la Champions League in un club in cui nessuno ci è riuscito negli ultimi 25 anni è uno stimolo sufficiente. Significa solo che quel Sarri tempestoso e vitale forse non c’è più; che la fierezza per il traguardo raggiunto lo porta a una partecipazione diversa, meno appassionata e viscerale di prima, quando sentiva di dover dare tutto se stesso non solo come tecnico ma anche come uomo per completare la sua incredibile parabola.
Anche nella ricerca del suo calcio sembra diverso, più paziente. Tutti hanno ancora nella testa la danza armonica del suo Napoli, e per riflesso condizionato molti si aspettano di vedere una squadra allenata da Sarri offrire quello stesso spettacolo corale. Ma quella è un’opera non riproducibile. Conscio della grandezza di quest’equivoco, Sarri deve fare i conti con il peso di quel memorabile precedente, ma non sembra subirne troppo l’influenza.
E l’esperienza a Londra, in questo senso, è stata fondamentale. Perché se è vero che l’immagine di integralista con cui è sempre stato ritratto è piuttosto infedele – ed è la sua storia a dircelo – , è altrettanto vero che nel suo primo periodo al Chelsea le aspettative dei media inglesi e l’eco di quel capolavoro estetico realizzato a Napoli l’avevano portato a uno spasmodico e fallimentare tentativo di ripercorrere quelle tracce. Col tempo, e dopo una valanga di critiche, Sarri si è liberato di quell’ossessione.
Sempre nel totale rispetto per i suoi princìpi di gioco, ha compromesso parte dei suoi dogmi per correre incontro alle esigenze e alle caratteristiche dei suoi giocatori. La strada giusta per trovare identità e risultati, in una stagione culminata con la qualificazione in Champions League e la conquista dell’Europa League, il suo primo trofeo europeo.
Questa conquistata flessibilità, che fa rima con definitiva maturità, gli torna utilissima oggi, e lo fa apparire sereno anche se la qualità del gioco stenta, una fetta di tifoseria bianconera è delusa, e solo a sprazzi ha visto la Juve che ha in mente e che sta cercando di modellare. A 61 anni ha imparato una nuova lezione, ed è convinto che alla lunga, valorizzando le qualità dei suoi campioni, troverà la bellezza rincorsa: “Non sono così presuntuoso da allenare me stesso. Quando ti trovi ad allenare giocatori in grado di fare la differenza, secondo me bisogna assecondarli”.
Se Sarri appare così zen, non è solo per i motivi esposti in precedenza: è anche perché sa che il cammino per raggiungere l’agognata identità questa volta è più comodo. Durante i lavori di costruzione, con la qualità dei giocatori a disposizione, le vittorie arrivano ugualmente. E così, senza riuscire a portare una pressione alta per tutta la gara, senza avere costantemente il dominio del pallone, senza offrire con costanza la qualità nel gioco corto per liberare un’altra zona, insomma, senza portare al meglio sul campo la sua filosofia, la sua Juve, al netto della sconfitta in Supercoppa, ha chiuso il girone d’andata con 48 punti su 57 a disposizione e si è qualificata agli ottavi di Champions League passando agilmente il turno come prima del girone.
Anche se alcuni atteggiamenti sono gli stessi di sempre, come il commento alla reazione stizzita di Dybala al momento del cambio (“me ne frego”), anche se “mia moglie dice che sono la stessa testa di cazzo di sempre”, quello di oggi è un Sarri diverso. Ma non è il Palazzo ad averlo cambiato, è la strada che ce lo ha portato ad averlo cambiato.