Le notti (poco) magiche degli Emirati Arabi Uniti

Il 9 giugno 1990, al Dall’Ara, gli Emirati Arabi Uniti fanno il loro esordio in un Mondiale. Schierano una squadra composta da qualche professionista e da poliziotti, vigili del fuoco, addetti aeroportuali e funzionari pubblici. La loro avventura durerà solo 3 partite (tutte perse), ma basterà a farli entrare nella storia

Quando, sul finale della gara con la Corea del Sud  un tifoso si introduce nella tribuna stampa dello Jurong Stadium di Singapore e gli comunica la notizia della vittoria del Qatar sulla Cina, il commentatore emiratino Adnan Hamad si lascia trasportare dall’entusiasmo, pronunciando in diretta una frase destinata a rimanere scolpita nell’immaginario collettivo emiratino: “Vedo le luci di Roma“, urla commosso, con la voce rotta dall’emozione.

D’altronde, l’impresa appena compiuta dagli Emirati Arabi Uniti, a cui è bastato pareggiare con la Corea del Sud nell’ultima appassionante giornata del final round delle qualificazioni asiatiche, è di portata storica, inimmaginabile soltanto qualche mese prima: nemmeno vent’anni dopo la fondazione dello Stato, gli Al-Abyad, I Bianchi, hanno vidimato il biglietto per Italia ’90, qualificandosi per la prima, storica volta ad un Mondiale.

Il percorso per arrivare alla gloria, però, è partito molto più lontano. Tutto comincia quando nel 1977 Don Revie, il leggendario allenatore del Dirty Leeds degli anni’ 60-70, rassegna le proprie dimissioni da commissario tecnico dell’Inghilterra con un articolo apparso sul Daily Mail e se ne va ad Abu Dhabi, accettando la corte degli Emirati Arabi Uniti.

Per questa scelta in patria viene messo alla gogna. Lo accusano di seguire la stella cometa dei petroldollari, ma si sbagliano di grosso: Don Revie regalerà uno sviluppo senza precedenti al calcio emiratino. Il manager inglese si impegna per il miglioramento delle strutture, ma soprattutto esporta organizzazione, disciplina e idee tattiche innovative in un contesto da quel punto vista ancora piuttosto arretrato, gettando le basi per i successi degli anni successivi: “Papà è stato sicuramente un pioniere. Ha introdotto idee tattiche e tecniche di coaching che non erano mai state viste prima in Medio Oriente“, ha dichiarato il figlio Duncan Revie in un’intervista allo stupendo portale inglese These Football Times.

Tre anni più tardi Don Revie, squalificato intanto per 10 anni dalla FA per aver “rovinato la reputazione del calcio inglese“,  lascia il posto all’iraniano Heshmat Mohajerani. A completare l’opera iniziata dall’allenatore inglese, però, saranno due allenatori brasiliani: Carlos Alberto Parreira e Mário Zagallo. La loro è una staffetta perfetta, modellata sui gusti dello sceiccho Hamdan bin Zayed Al Nahyan, il presidente della federazione emiratina.

Nel 1984 gli EAU sono alla ricerca di un tecnico di respiro internazionale, con un certo carisma, in grado di proseguire sulla strada tracciata da Revie. Per questo hanno posto una condizione: non deve essere qualcuno completamente estraneo al contesto mediorientale. Nessuno allora gli sembra corrispondere all’identikit più di Parreira, che in quello spicchio di Mondo si era già costruito una solida reputazione guidando il Kuwait al trionfo in Coppa d’Asia nel 1980, ma quattro anni hanno già cambiato idea: al suo posto arriva il connazionale Mário Zagallo.

Di Mondiali, del resto, il Lobo se ne intende: è stato il primo uomo a vincerlo sia da giocatore che da allenatore. Sarà lui il condottiero della prima, straordinaria qualificazione degli Emirati Arabi Uniti alla FIFA World Cup, raccontata magistralmente dal giornalista dubaino Ali Khaled nello splendido docufilm “The Lights of Rome”.

Nel primo round delle qualificazioni AFC gli Emirati Arati Arabi Uniti finiscono nel gruppo 3 con Kuwait, Pakistan e Yemen del Sud, ma questi ultimi alla fine si ritirano per motivi politici. Nonostante una doppietta di Zuhair Bakheet, l’avventura degli Al-Abyad inizia nel peggiore dei modi, con una sconfitta in trasferta all’esordio in Kuwait. Niente di preoccupante, perché la nazionale emiratina è brava a rialzare la testa, inanellando una serie di tre vittorie consecutive. Batte due volte il Pakistan in goleada, ma soprattutto grazie ad un gol del totem Al-Talyani si prende la rivincita sul Kuwait, accedendo al tabellone del final round.

L’ultima tappa della lunga ed estenuante via crucis verso il Mondiale italiano si gioca a Singapore. Il fantasma di quattro anni prima, quando l’Iraq li aveva eliminati ad un passo dal barrage decisivo con la Siria, aleggia ancora sugli emiratini, ma questa volta le cose vanno diversamente. Anche perché a trascinare verso la gloria i Bianchi c’è Adnan Al-Talyani, che in arabo vuuol dire l’italiano, guarda un po’ i casi della vita. Il fantasioso attaccante, rimasto per tutta la vita fedele ai colori dell’Al-Shaab, segna solo due gol, ma entrambi hanno un peso specifico incalcolabile, perché realizzati nei due momenti più iconici della cavalcata verso Italia ’90.

Il primo è forse il più importante e completa un’insperata rimonta con la Cina, successiva al pareggio a reti bianche con la Corea del Nord; il secondo, dopo i pareggi con Arabia Saudita e Qatar, lo realizza nell’ultima giornata alla Corea del Sud. Vale il pareggio con i Taeguk Warriors, ma grazie alla sconfitta del Cina con il Qatar si trasforma nel gol della storica qualificazione, destinato ad essere ricordato per l’eternità. In campo scoppia la festa, Zagallo viene portato in spalla come un eroe, a Dubai e Abu Dhabi la gente impazzisce di gioia.

Al loro ritorno nella capitale, dopo essere stati accolti da una folla festante, i calciatori emiratini vengono invitati ad un cerimonia di palazzo dallo sceicco Zayed bin Sultan Al Nahyan, il padre fondatore dello Stato: “Nessuno poteva immaginarlo. La qualificazione è arrivata con la Corea del Sud, ma la vittoria più importante è stata quella con la Cina.“, ha ricordato Ali Thani, uno dei pilastri della mediana di quella nazionale, al quotidiano emiratino The National.

Nello stesso momento, però, nelle stanze della federazione regna il caos più totale: a generarlo, in parte, sono state le dimissioni dello sceicco Hamdan bin Zayed Al Nahyan, l’uomo forte della federazione negli anni ’80, rassegnate nel bel mezzo delle eliminatorie. La confusione aumenta quando, nel gennaio del 1990, a pochi mesi dal Mondiale, qualcuno decide non si sa bene perché di allontanare Zagallo, mettendo sulla panchina dei Bianchi il polacco Bernard Blaut, già tecnico dello Sharjah, uno dei club più blasonati del Paese. Ma è solo un palliativo perché a marzo, a tre mesi dal Mondiale, la federazione vuole sentirsi le spalle coperte e lo esonera, richiamando Carlos Alberto Parreira, che nel frattempo ha conquistato una Coppa d’Asia al timone dell’Arabia Saudita.

Il nuovo presidente federale, lo sceicco Hamdan bin Rashid Al Makhtoum, promette ingenti premi in denaro se la nazionale dovesse conquistare almeno un punto al Mondiale. Un’impresa quasi impossibile, considerando che in Italia sbarca una squadra piuttosto modesta, inesperta e per giunta scombussolata dai numerosi avvicendamenti in panchina. Tutti i 23 giocatori militano in patria, distribuiti nei club di punta come Sharjah, Al-Wasl, Al-Shaab e Al-Khaleej, ma soprattutto molti di loro sono dilettanti con un’altra occupazione oltre al calcio: in rosa ci sono, ad esempio, poliziotti, vigili del fuoco, addetti aeroportuali e funzionari pubblici di ogni tipo. Il sorteggio, tenutosi al PalaEur di Roma alla presenza di icone dell’italianità nel Mondo come Sophia Loren e Luciano Pavarotti, poi non è stato dei migliori: agli Emirati Arabi Uniti, catapultati nel gruppo D, sono toccate Colombia, Jugoslavia e Germania Ovest.

In Italia la delegazione emiratina sceglie Imola come proprio quartier generale, alloggiando presso il Molino Rosso, uno sfarzoso complesso alberghiero della città. L’accoglienza riservata ai Bianchi è quella concessa di solito ai più autorevoli capi di Stato, con tanto di moschea mobile allestita per permettere alla comitiva araba di pregare. Gran parte dei media italiani, però, alla curiosità verso una cultura così lontana preferisce la superficialità degli stereotipi, come racconta dettagliatamente Matteo Bruschetta nel suo libro “I Mondiali dei Vinti”: sui giornali si favoleggia di calciatori multimilionari attorniati da odalische e all’aeroporto di Bologna qualcuno mette in giro la voce che insieme ai Bianchi dall’airbus sbarcherà una mandria di cammelli.

Tutto questo mentre Piero Chiambretti dedica addirittura una trasmissione televisiva, “Prove Tecniche di Mondiale”, all’avventura della nazionale degli Emirati Arabi Uniti: l’idea dovrebbe essere quella di far conoscere al grande pubblico le vicende di una nazionale così tanto esotica, ma il format satirico si rivela ben presto un trionfo di luoghi comuni in onda nel pre-serale di Rai 3.

Finalmente il 9 giugno allo Stadio Renato Dall’Ara di Bologna comincia lo storico Mondiale degli Emirati Arabi Uniti. Alla vigilia c’è subito una brutta notizia per Parreira: il difensore Ghanim Mubarak, infortunatosi al ginocchio destro in un’amichevole premondiale con i tedeschi dello Stoccarda, non è riuscito a recuperare e si ritrova costretto a dare forfait.

Senza Mubarak, che compone la collaudata cerniera difensiva emiratina assieme a Khaleel Ghanim, uno dei più forti centrali della storia del calcio mediorientale, arginare gli assalti dei colombiani diventa un’impresa titanica, ma  Bianchi riescono comunque ad andare all’intervallo sullo 0-0. Nella ripresa, però, i Cafeteros entrano determinati a risolvere la pratica e colpiscono due volte, regalando ai gli Emirati Arabi Uniti la prima delusione iridata: Redin la sblocca al ’50 e il Pibe Valderrama scrive la sentenza negli scampoli finali.

Cinque giorni più tardi, a San Siro, la missione dei Bianchi è ancora più ardua: di fronte ci sono i vicecampioni in carica della Germania Ovest. Alla vigilia gli emiratini si affannano ad allontanare le ipotesi di catenaccio, annunciando di voler scendere in campo per giocarsela a viso aperto, ma visto come va a fine forse un pizzico di prudenza in più non avrebbe guastato. Dopo l’acquazzone che si abbatte su San Siro, fonte di polemiche per la nuova copertura dell’impianto meneghino, un diluvio biblico travolge anche gli Emirati Arabi Uniti. La Germania infatti ne fa 5. Segnano Klinsmann, Matthäus, Bein, e due volte Völler, ma almeno se non altro Khalid Ismaïl si toglie lo sfizio di realizzare il primo, storico goal iridato dei Bianchi, fulminando Illgner con un bel diagonale mancino all’inizio della ripresa: “Piove sui poveri emiri“, titola all’indomani la Gazzetta dello Sport.

Almeno teoricamente, però, non tutto è ancora perduto. Nonostante le due sconfitte iniziali, l’eventuale vittoria nell’ultimo incontro, abbinata ad una serie di incastri favorevoli, metterebbe clamorosamente gli Emirati Arabi Uniti sulla strada degli ottavi di finale, ma i Bianchi in realtà si accontenterebbero volentieri anche di pareggiare: vuoi mettere, dopotutto, la soddisfazione per la conquista del primo punto iridato? E, a sentire le dichiarazioni della vigilia, sono pure piuttosto convinti di potercela fare: “Un pari sarebbe per noi un risultato storico. E penso che ce la possiamo fare, visto che alla Jugoslavia basta un punto per superare il turno. Sarebbe insensato da parte loro sperperare troppe energie con noi, no?”, spiega fiducioso ai cronisti Al-Talyani, ma in realtà sembra più un maldestro tentativo di autosuggestione.

In campo, contro una delle ultime apparizioni della Jugoslavia unita, non c’è storia. Dopo la manita della Germania Ovest arriva il poker dei balcanici, trascinati da una doppietta di Pančev e dalle reti di Sušić e Prosinečki. Gli Emirati trovano di nuovo il gol, questa volta con Ali Thani, ma serve solo a rendere meno amara la pillola.

L’unico Mondiale disputato dagli Emirati Arabi Uniti si chiude così, con tre sconfitte, due gol realizzati e undici subiti. Uno score disastroso, ma avere dei rimpianti resta difficile per una nazionale arrivata in Italia quasi miracolosamente, anche se non per caso. Ne è convinto il capitano Abulrahman Mohammed, faro del centrocampo emiratino in quel Mondiale: “Per noi non è mai stata una questione di risultati. Giocare contro artisti del calibro di Klinsmann, Völler e Matthäus è stato davvero qualcosa di speciale”.

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