Stiamo diventando tifosi più distaccati?

Gli stadi senza pubblico e i problemi legati alla pandemia ci stanno portando nell’era del “football light”

 

All’inizio sembrava surreale, ma ne abbiamo colto l’essenza migliore: il ritorno al gesto tecnico, al gol, alle voci dei protagonisti del campo, ai primi timidi abbracci, dopo i poco credibili colpi di gomito delle reti segnate a maggio in Bundesliga. Un modo, l’unico, per tornare a godere del calcio, nonostante gli stadi vuoti e l’eco assordante. Abbiamo provato a fingere che, quella di vedere partite giocate senza pubblico sugli spalti, fosse un compromesso accettabile.

Le ultime grandi partite di Champions disputate con gli stadi pieni sembrano ricordi lontanissimi: l’Atalanta che domina il Valencia a San Siro, in quella che per alcuni è la partita zero del contagio, l’apice in termini di euforia collettiva che ha coinvolto praticamente tutta la comunità bergamasca e generato un effetto virale incontrollabile, e l’Atletico Madrid che strappa una qualificazione clamorosa a casa del Liverpool, ad Anfield, in un match pieno di colpi di scena, ribaltamenti, emozioni, afflati passionali tra giocatori e tifosi. Quelli del Liverpool che esultano a pochi centimetri dalla Kop e quelli dell’Atletico che scavalcano per andare ad abbracciare i propri, più di 3000, fan accorsi dalla Spagna in una sorta di allegria dei naufragi. Mentre vedevamo Morata segnare il gol qualificazione dei colchoneros, tutti noi eravamo coscienti che quella sarebbe stata l’ultima partita vera che avremmo visto, almeno per un po’. Una ricerca di Edge Health ha quantificato le vittime causate dagli effetti di quel match: circa 41.

Uno scenario impossibile da immaginare allora. E ancor più difficilmente potevamo pensare che sarebbe passato così tanto tempo per rivedere uno stadio pieno e, sebbene non ci siano molte altre soluzioni praticabili e di buon senso, dobbiamo constatare che nel frattempo sta cambiando anche il nostro approccio al calcio. Thomas “Tommi” Schmitt, giovane autore e columnist tedesco, tifosissimo del Borussia Mönchengladbach, ha dato una definizione molto calzante al periodo sociale che stiamo vivendo dal punto di vista del tifo: lo ha chiamato “football light”.

Nel momento migliore della sua squadra del cuore da 30 anni a questa parte, praticamente da quando lui è nato, ha parlato di emozioni simili a quella della preparazione del ragù. Lo ha fatto in una bella e dissacrante intervista a 11Freunde dal titolo “Lo Schalke è una pandemia a sé stante” (si tratta di tifo ma anche di cronaca, lo Schalke è proprietario di una grossa azienda di carni dove c’è stato un enorme focolaio di Covid in estate che ha costretto a un lockdown temporaneo due province) dove ha raccontato il suo approccio alla “cavalcata”, si fa fatica anche a chiamarla così, del suo Mönchengladbach in Champions League. 

«Naturalmente, è incredibile per me vedere la mia squadra giocare in un incontro ufficiale contro Ramos, Kroos, Benzema e compagni. È stata una splendida partita – ha raccontato – Ma è comunque football light. Quando abbiamo giocato contro l’Inter ho acceso la tv soltanto al quinto minuto, perché prima volevo finire di fare il ragú. Un anno fa avrei venduto i miei genitori per questa partita e avrei passato due settimane a Milano. È così assurdo, logico e in qualche modo divertente constatare in che misura il calcio dipenda dai tifosi. I fan sono al primo posto. Quello che succede in campo non è che al secondo posto. Questo si sta dimostrando vero in questi mesi. Non lo dico in modo sprezzante, positivo o negativo. Sto solo facendo il punto della situazione. Niente fan, niente passione. Cosa vale una partita di Champions League in trasferta come questa se tutto quello che vedi sotto le torri di San Siro, che conosci dalle simulazioni di FIFA 98, sono ranghi vuoti? Quanto vale una partita in trasferta se non ti puoi svegliare il giorno dopo mezzo ubriaco in un Airbnb e domandare ai tuoi amici come è finita la partita?».

Assurdo. Logico. In qualche modo divertente. Tre aggettivi bellissimi per descrivere il calcio attuale, contemporaneo, che facciamo fatica a definire sport e ancor meno spettacolo, mentre a stento può definirsi intrattenimento. Da troppo tempo si parla della trasformazione dei “tifosi” in “consumatori”, il problema è la definizione del prodotto che si sta consumando. La sensazione che vive Schmitt è quella del totale spaesamento di chi ha aspettato una vita per vedere la sua squadra andare a giocare a San Siro o ospitare il Real Madrid e scopre che quello che succede in campo non è che al secondo posto. Non c’è ovviamente una presa di posizione – e nessuno di noi mette in dubbio che questa sia l’unica soluzione possibile – ma una constatazione lucidissima sul fatto che i tifosi restano la parte più importante del calcio, del gioco e dello spettacolo stesso. 

Quando le cose si rimetteranno a posto bisognerà fare serie considerazioni su questo e prendere spunto, ad esempio, dalla lega NFL per la quale una squadra che riempie il proprio stadio guadagna diritti televisivi più alti rispetto a chi non lo fa. Si guarda con piacere una partita anche per la partecipazione attiva dei fan, per quella che non possiamo più chiamare “cornice di pubblico”, perché una cornice può essere passiva, come gli spettatori finti, i cartonati o i led luminosi con le facce dei fan che in questa seconda ondata del virus iniziano a farci tenerezza. Non dimentichiamo che, nella nostra Serie A ad esempio, molti stadi iniziavano a svuotarsi anche prima del Covid. Se nell’immediata ripresa dei campionati e della Champions post lockdown tutto questo è finito in secondo piano, è stato per due motivi. Uno antropologico, ovvero la voglia di ricominciare a riappropriarci delle nostre abitudini, seppur di surrogati, uno invece strettamente legato al gioco: si andava infatti verso la definizione di risultati definitivi. Vincitori di campionati, di coppe europee, promossi e retrocessi. 

Di fronte ai verdetti, alle partite da dentro o fuori come quelle giocate a Lisbona, siamo riusciti persino a divertirci e a subire il fascino della momentanea sospensione dell’incredulità, quella che per intenderci facciamo fatica a vivere adesso: ci sentiamo infatti lontani dai verdetti sportivi, ma anche dalla speranza di una uscita definitiva da questo tunnel fatto di paure, rinunce, privazioni. La formula era interessante e molto simile a quella ideata dall’NBA che ha creato la bolla Disneyworld. Poi però hanno prevalso i conti, i soldi, e si è svilito un prodotto.

Le partite dei gironi di Champions hanno un senso per determinare le due qualificate. Il resto è contorno. E il contorno è fatto appunto di viaggi, esperienze, stadi pieni. San Siro che riaccoglie l’Inter di Spalletti con il claim coniato da Inter Media House “E uscimmo a riveder le stelle” trasforma il match contro il Tottenham, prima partita del girone, in una gara dai contorni (fin troppo, per alcuni) epici. Quando Icardi segna il gol dell’1 a 1, lo stadio inizia ad alzare i battiti fino a ruggire per il gol di Vecino, una rete che fa impazzire anche i due telecronisti, Trevisani e Adani. Un gol completamente inutile per la qualificazione, l’Inter arriverà terza nel girone, e per la stagione stessa. Eppure uno dei momenti più alti dell’interismo degli ultimi anni. Non per quello che accade in campo, ma per quello che accade sugli spalti. 

Le stesse partite di campionato, a inizio stagione, sono spesso gare fini a sé stesse. Non è un caso che, dove si gioca troppo, l’esempio della lega NBA è ancora calzante, il pubblico ha un diverso approccio alle gare. Fino a che il gioco non si fa duro arriva in ritardo al palazzetto, sta più tempo al bar  che seduto a guardare il gioco e questa concezione molto americana di fruizione del gioco rischiamo di portarla nel calcio a fronte di calendari troppo fitti per una stagione come questa. Al di là della retorica, non sarebbe stato più sensato pensare a gironi di Champions di sola andata da disputare in 10 giorni, stile Mondiale, in un unico campo neutro? Quale emozione si prova a vedere l’Inter giocare a Valdebebas piuttosto che al Santiago Bernabeu (che a onor del vero è in corso di ammodernamento)? Dopo il passaggio all’indietro di Hakimi per Benzema, la sensazione che si stesse disputando un’amichevole o una partitella di allenamento, mi ha toccato, devo ammetterlo. 

Bisognerà convivere ancora un po’ con questa situazione, allora tanto vale trovare soluzioni per non rischiare di perdere la vera fanocracy del calcio, i tifosi. Non basterà coinvolgerli con i tweet e con le stories di Instagram, bisognerà rivedere il prodotto, altrimenti le partite diventeranno un intrattenimento alla pari di una serie – noiosa – su Netflix. Il football light dovrà fare molta attenzione alle quantità, se non vuole diventare paradossalmente indigesto. 

POTREBBE INTERESSARTI

I PIÙ LETTI DELLA SETTIMANA

Altre letture interessanti