La società ha già fatto sapere che il mercato estivo sarò oculato. Nonostante sia il grande artefice dello scudetto, Conte non potrà avere le garanzie che di solito esige. Una campagna acquisti in tono minore potrà essere comunque sufficiente in Italia, ma ora la vera sfida dell’Inter è in Europa
Il 31 maggio 2019, un Antonio Conte inusualmente timido siede su uno sgabello di fianco a Steven Zhang per la sua presentazione al mondo nerazzurro. Sciorina i concetti alla base del suo credo, che finirà per ripetere come un mantra ogni volta che parlerà ai microfoni: lavoro, sacrificio, dedizione. Ma il cuore dell’intervista realizzata dal canale ufficiale del club ruota attorno a una parola: ambizione. Presidente e allenatore annunciano che il sodalizio da 12 milioni di euro a stagione è nato con l’obiettivo di «Riportare l’Inter dove merita di stare», ovvero al top in Italia e nel mondo.
Meno di due anni dopo, il 2 maggio 2021, quel proclama lanciato in coro da Zhang e Conte trova il suo compimento, almeno per quanto riguarda i confini nazionali. L’Inter è tornata «dove merita di stare» dopo undici, dolenti anni, che hanno visto avvicendarsi 13 allenatori e tre diverse proprietà. Ci è riuscita soprattutto grazie alla marcia brutale di un girone di ritorno praticamente perfetto, in cui ha raccolto 41 punti su 45 disponibili nelle prime 15 giornate, staccando una dopo l’altra le rivali per il titolo. Un successo raggiunto nel pieno rispetto della propria identità storica. Sin dal giorno della sua nascita, l’Inter non è mai stata più di un decennio senza vincere il campionato. Spesso lo ha fatto con allenatori carismatici e accentratori. Più o meno da sempre, si è trovata a fare i conti con la dispettosa dicotomia di anelare all’estetica ma di vincere con squadre molto pratiche e poco spettacolari. Quella di Conte, che ha svoltato da quando ha deciso per un approccio tattico reattivo, non fa eccezione.
Nel frasario contiano, un’altra parola è stata ricorrente in questo biennio: percorso. Quello intrapreso dalla famiglia Zhang da quando ha rilevato la maggioranza delle quote dell’Inter, nel 2016, oggi appare in perfetta linea con la programmazione. Cinque anni in cui ogni step di crescita messo in agenda è stato raggiunto. Passo dopo passo, ha scalato tutti i gradini necessari per risalire la piramide del calcio italiano e tornare a respirare le vertigini della cima. Dentro e fuori dal campo, dove ha operato per restituire al brand Inter l’allure di un tempo attraverso la riorganizzazione della governance e una campagna di ammodernamento che strizza l’occhio ai mercati asiatici.
Un traguardo raggiunto nonostante gli scogli che improvvisamente si sono posti sulla strada, e che avrebbero potuto compromettere un lavoro di pianificazione per cui Suning ha investito una cifra attorno ai 700 milioni. Prima il dietrofront del governo cinese rispetto ai tanto promossi progetti esterni, poi la crisi pandemica che ha dimezzato ricavi. Problemi che hanno inevitabilmente ridimensionato le mire iniziali della famiglia Zhang, d’un tratto costretta a mettersi a caccia di finanziatori e soci per restare a galla. Mai, all’inizio della sua avventura, il giovane presidente Steven avrebbe immaginato l’imbarazzo di dover ringraziare i suoi giocatori per uno scudetto senza che gli abbia ancora corrisposto gli ultimi stipendi.
Per ipotizzare gli scenari futuri dell’Inter, è impossibile prescindere dalla difficile situazione finanziaria in cui versa il club. «L’obiettivo è arrivare a un accordo con un partner per far confluire la liquidità che serve in questo momento. C’è grande ottimismo», ha detto l’ad sportivo Giuseppe Marotta a Radio Anch’io poche ore dopo la conquista dello scudetto. Poi l’attenzione si è spostata su Antonio Conte. La sua permanenza all’Inter è l’altro nodo da sciogliere per capire che forma avrà il domani nerazzurro. Forse per l’inebriamento da titolo o forse per la fiducia che si possa trovare un accordo, sempre Marotta ha detto che «Non esiste un piano B perché spero tanto che Conte possa continuare con noi. C’è grandissimo feeling tra lui, la società, la squadra e i tifosi. Sono ingredienti importanti per crescere e toglierci delle soddisfazioni».
Dopo una prima stagione in cui le stoccate pubbliche che Conte rivolgeva alla dirigenza erano una costante, quest’anno, complice l’emergenza collettiva dovuta alla pandemia, il tecnico nerazzurro si è servito dei problemi societari in modo diverso. Non più come scudo del suo lavoro, ma come strumento per cementare il gruppo-squadra e alimentare, agli occhi dei calciatori, la sua retorica dell’impresa. L’artificio dell’isolamento orgoglioso, l’epica dell’unione contro tutto e contro tutti, anche contro i propri datori di lavoro, ha funzionato. Conte ha investito tutte le sue forze per centrare l’obiettivo del titolo, limitando a sorrisi sardonici e lamenti espressi a mezza bocca le manifestazioni di amarezza per il cambio di paradigma della gestione societaria.
Ora che lo scudetto è nelle sue mani, ora che ha fatto «cadere un regno che durava da 9 anni», quel sommerso non può che tornare a galla. Le alte sfere dell’Inter hanno già espressamente dichiarato che il mercato estivo sarò oculato, e che la campagna di rafforzamento sarà condizionata dalla necessità di contenere i costi e ridurre il monte ingaggi. Nonostante sia il grande artefice dello scudetto, Conte non potrà avere le garanzie che di solito chiede. O meglio, esige. E con il contratto in scadenza il prossimo anno, potrebbe anche decidere di lasciare. Dall’altra parte, però, restare sarebbe la soluzione più comoda. Anche per non disperdere il grande lavoro svolto in questi due anni. Per l’ossessione e il trasporto con cui il tecnico leccese vive il mestiere di allenatore, per la mentalità che punta a instillare in un gruppo, per i codici del suo calcio tetragono, ripartire da zero è un’opera di costruzione logorante.
Immaginandolo ancora alla guida dell’Inter, il contesto sembra ideale per l’apertura di un ciclo. Conte è riuscito a modellare la macchina perfetta che ha iniziato ad assemblare dal primo giorno al Suning Center. Un ingranaggio in cui ogni tassello è rigorosamente al suo posto; in cui ogni giocatore sa esattamente cosa deve fare, ed è disposto a mettere la sua individualità a disposizione della squadra. L’identità dell’Inter è fortissima, ed è definita in maniera monolitica. Se non per qualche soluzione studiata in base all’avversario, la squadra di Conte si presenta sempre con lo stesso sistema di gioco, con lo stesso piano per sfruttare le sue armi, con gli stessi tic e princìpi. Quello che avrebbe potuto essere un limite, è risultato un enigma indecifrabile. Almeno per quanto si è visto da gennaio in avanti, nessuno è riuscito a domare questa creatura così prevedibile e feroce. Un punto espresso in maniera eloquente da Serse Cosmi nel post di Crotone-Inter: «tutti sanno che l’Inter cerca di farti male in quel modo, e tutti prendono gol nello stesso modo».
È facile pensare che l’Inter si ripresenti il prossimo anno con indosso lo stesso vestito che ha imparato così bene a portare, ma con giocatori valorizzati dal loro tecnico e arricchiti dallo scintillio del successo. Ingredienti che potrebbero essere utili per consolidare la sua monarchia, per rendere il rebus della sua prevedibilità ancora più irrisolvibile, soprattutto osservando il panorama delle possibili contendenti. La Juventus, dopo un dominio quasi decennale, affronta una fase di ristrutturazione. Il Milan, persa la magia della prima parte di stagione, è tornata sulla strada della crescita graduale. L’Atalanta sembra quasi pronta per tentare il colpo grosso ma resta comunque un’outsider, soprattutto se si riguadagnerà l’opportunità di giocare la Champions League. Roma e Napoli si avviano verso due nuovi progetti tecnici, con tutti gli interrogativi che l’arrivo di un nuovo allenatore porta con sé. Uno scenario non così dissimile da quello in cui Conte si mosse nella sua seconda stagione da allenatore della Juventus, dopo aver vinto al primo anno, e che fu prodromica alla nascita dell’impero bianconero.
La possibilità di cucire sul petto la seconda stella, inoltre, gioca un ruolo importante in quel cocktail di ambizione e motivazione da cui Conte ha esigenza di abbeverarsi. Nella narrazione del tecnico, l’elemento sovversivo non deve mai mancare. Affinché la sua retorica del duro lavoro non smetta di attecchire su un gruppo di giocatori a cui chiede ogni goccia di energia e incondizionata adesione a una filosofia, la presenza di un conflitto, di un nemico, di un agente esterno che renda quella per l’obiettivo una missione corsara, è fondamentale. È difficile chiedere a Lautaro Martinez di spendersi da quarto di centrocampo in una gara contro il Bologna senza convincerlo che quel sacrificio è proiettato al raggiungimento di qualcosa di veramente grande, al rovesciamento di uno status quo, a una gloria eterna.
In questo senso, la più grande sfida che aspetta l’ipotetica Inter di Conte si gioca in campo europeo. Se è vero che l’eliminazione dalla Champions è stato lo sparo che ha fatto partire la corsa verso lo scudetto, è altrettanto vero che il mancato passaggio del turno resta un neo della stagione. È lì che l’Inter testerà la sua crescita futura, ed è lì che il calcio di Conte si è sempre incastrato, non solo quest’anno. Più volte, nei mesi successivi a quella delusione, il tecnico dell’Inter ha manifestato il suo rimpianto per non aver affrontato la competizione con l’approccio elaborato più tardi: quello che ha visto abbassare di venti metri il baricentro della squadra per acquisire solidità difensiva e aprire il campo alle transizioni letali.
L’Inter che usciva dalla Champions era il respiro lungo di quella di inizio stagione. Una squadra offensiva che cercava equilibrio in maniera proattiva, pressando alto e puntando sulla riaggressione. Un atteggiamento che l’ha portata spesso a sbilanciarsi e a risultare fragile, anche a causa dell’assenza di un difensore veloce che non soffra nel doversi lasciare tanto campo alle spalle. Tuttavia, l’idea che l’Inter della seconda parte di stagione avrebbe avuto un destino diverso in Champions è piuttosto precaria. Da una parte perché lasciare il pallino del gioco a una squadra europea è diverso che concedere il 70% di possesso palla al Sassuolo; dall’altra perché un calcio estremamente codificato che vive quasi esclusivamente di meccanismi preimpostati trova difficoltà non appena fronteggia blocchi bassi, come dimostrano i due 0-0 contro lo Shaktar che, di fatto, sono costati l’eliminazione.
Conte dovrà mettere in discussione il suo rigido credo per cercare nuove sfumature. Dovrà votarsi a una maggiore flessibilità e, soprattutto, all’inventiva dei singoli presi nella loro individualità e non come parte fissa di un sistema. Una squadra come l’Inter, che ricopre stabilmente le posizioni più basse nella classifica di dribbling tentati in serie A, difficilmente troverà fortuna in Champions League, un torneo dove qualità e creatività decidono spesse gli esiti delle partite.
È anche da questo punto che passa il progetto di miglioramento della rosa. Oltre a un esterno sinistro, a un difensore centrale, a una mezz’ala che copra i possibili esuberi di Vecino,Vidal e Gagliardini, all’Inter serve un giocatore di fantasia, abile nell’uno-contro-uno, capace di sparigliare le carte in quelle partite in cui la meccanica contiana sbatte contro un muro. Un compito che fino a oggi è stato di Sanchez, non a caso risultato prezioso in molti momenti della stagione. Per il resto, il roster nerazzurro sembra offrire buone garanzie per il futuro. L’eccellente lavoro di Conte ha permesso ai giovani di prospettiva di crescere velocemente (Barella, Bastoni, Hakimi, Lautaro), ad altri di valorizzare le loro caratteristiche all’interno di un sistema (Skriniar, Perisic, Eriksen), e ad altri ancora di raggiungere il loro prime tecnico (Lukaku, De Vrij, Brozovic). Un gruppo cresciuto in maniera organica e che oggi, grazie alla fame di gloria che il successo sa stimolare, è più consapevole della sua forza. Desideroso di lasciare altre impronte nella storia. Sempre che la situazione finanziaria non porti alla dolorosa decisione di rinunciare a qualcuno dei pezzi più pregiati.
Già, è qui che si torna, alla stabilità del club. È questa la lente attraverso cui guardare l’orizzonte. Con uno scudetto appena conquistato, e un marchio ormai rigenerato, dovrebbe essere più semplice trovare i soldi necessari a proseguire il progetto. La volontà, stando alle parole scritte in una lettera indirizzata da Zhang padre ai tifosi interisti, sembra esserci: «Lo scudetto non è la conclusione, ma l’inizio del cammino dell’Inter».