Le maglie sono oggi un tema di interesse popolare proprio perché sono la rappresentazione più solida dell’identità di un club, la sintesi dei suoi valori e della sua storia, ma anche – ormai – l’oggetto maggiormente sottoposto alle logiche del marketing. E non sempre le scelte dei grandi brand riescono a soddisfare i tifosi
Ad un certo punto, i creatori del noto videogame dedicato al calcio introdussero la possibilità di modificare le divise da gioco della squadra inventata di sana pianta per la modalità “master”. Era la notizia migliore possibile, il miglioramento più importante per chi, come me, accumulava sulla scrivania della camera fogli sui cui erano disegnate le prove dei kit. Ricordo che avevo scaricato da internet delle immagini di silhouette, le avevo stampate e le utilizzavo come base per inventare divise da calcio. Ricordo poi che le ore passate ad immaginare, disegnare e riprodurre nel videogioco le magliette della mia squadra immaginaria – il memorabile (per il sottoscritto) Galaxy i cui colori sociali erano il blu scuro e il bianco, cioè quelli che allora mi sembravano adatti a ricordare una “galassia” -, compatibilmente con le opzioni a disposizione, superarono quelle di gioco effettivo.
Era un vezzo personale – mi piaceva il calcio, il videogioco sul calcio, e l’arte, il disegno, e quindi le magliette erano il perfetto connubio – ma anche una tendenza generale, perché forse sono stati gli anni a cavallo del nuovo millennio quelli in cui le magliette da calcio cominciarono a diventare davvero importanti. È un’impressione – le maglie erano importanti anche prima, certo – ma in quel periodo ricordo che l’attenzione per le divise da parte del pubblico, dei club che iniziavano a creare forme di lancio efficaci per le maglie, come se fossero cimeli preziosi, e dei media, cresceva. E in quegli stessi anni, almeno così mi sembra, le divise da calcio cominciarono a diventare oggetti di esperimenti da parte dei grandi marchi che le producevano: a non essere più, in sostanza, basiche, monotone, sempre uguali a loro stesse. Diventarono, in sostanza, oggetti dal design personalizzato e variabile: ad ognuno non più soltanto i colori del club, ma anche il suo stile, e ogni stagione uno stile diverso, perché la maglia non era soltanto necessaria alla squadra per scendere in campo ma era diventata anche il primo oggetto di collezione per i tifosi. Un cimelio, appunto.
Ricordo la notizia per cui era Roberto Mancini a disegnare le magliette delle squadre di cui era allenatore. Della Lazio e poi dell’Inter. Non ho mai capito se fosse vera, ma a prescindere confermava l’idea che la possibilità di personalizzare il design dei kit e valorizzarlo con scelte commerciali precise (come coinvolgere l’allenatore nel progetto creativo) portasse un valore aggiunto al prodotto, e di conseguenza alla società che su quel prodotto veicolava la propria immagine. Il kit era sacro, essendo l’unica cosa che non cambia in una società (cambiano invece i giocatori, i dirigenti, i proprietari, addirittura i marchi), eppure era diventato a sua volta oggetto di modifiche. È un’onda che oggi, alle volte, finisce per sommergere la storia e profanare la sacralità della maglia, basti pensare agli innumerevoli esperimenti che i grandi brand compiono sulle divise, non più soltanto quelle da trasferta, ma anche quelle principali. Quelle sacre. Per dirne una, soltanto l’ultima, la Juventus, che si è liberata delle strisce verticali e giocherà nella prossima stagione con questa nuova maglietta metà bianca e metà nera griffata Adidas, che piace a molti perché “fatta bene” di per sé ma non piace agli altri perché “antistorica”.
Le maglie sono oggi un tema di interesse popolare e un argomento battuto proprio perché sono la rappresentazione più solida dell’identità di un club, la sintesi dei suoi valori e della sua storia, ma anche – ormai – l’oggetto maggiormente sottoposto alle logiche del marketing. Devono soddisfare le esigenze di un mercato che richiede varietà estetica e una continua diversità, senza però andare di traverso ai tifosi, notoriamente protettivi nei confronti delle tradizioni del loro club. Negli ultimi decenni, Nike e Adidas sono diventate i punti di riferimento per il mercato delle divise da calcio perché hanno saputo trovare il corretto equilibrio tra le parti. Contestualmente sono scivolati verso il dimenticatoio i brand un tempo più noti, come Umbro, ad esempio, perché sono stati incapaci di raffrescare i loro prodotti. Oggi, mentre si susseguono le presentazioni ufficiali delle divise per la prossima stagione, l’impressione è che la gerarchia si stia ribaltando: le divise prodotte dai colossi dell’abbigliamento sportivo sono sempre più spesso contestate dagli appassionati, probabilmente perché tendono ad azzardare novità estetiche fino a storpiare la storia dei club, mentre i marchi reduci da anni di crisi sembrano ora in grado di coniugare tradizione e innovazione.
Quasi ogni anno, Nike rivoluziona la divisa di uno dei suoi top-team: se qualche stagione fa toccò all’Inter, d’un tratto vestita con una maglia gessata, per la prima volta senza le classiche strisce verticali, stavolta è toccato al Barcellona, la cui prima maglia per la prossima stagione sarà a scacchi. Il concept può sembrare illogico, ma osservando il lancio di Nike risulta invece ispirato alla pluralità della città: insomma, è chiara l’origine e non è scontata. Semmai sembra debole il risultato perché trasmette una sensazione negativa, cioè che Nike si sia autoimposta di proporre divise profondamente innovative per tornare ad essere un riferimento nel settore, ma il troppo stroppia e infatti le maglie di alcuni club clienti dell’azienda americana ultimamente sono sembrate esageratamente antistoriche.
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For the people that move the city forward
Talent takes different shapes pic.twitter.com/3CoyAQifV3— FC Barcelona (@FCBarcelona) June 3, 2019
La stessa Inter giocherà la prossima stagione con una maglia che ha già diviso i tifosi e la critica: le strisce verticali saranno interrotte da una fascia in cui queste stesse strisce diventano diagonali. Anche qui, il risultato è agrodolce. L’impressione è che sia frutto di una rivoluzione avviata con coraggio ma poi frenata a metà corsa: i rumors di qualche mese fa annunciavano infatti una divisa interamente a strisce diagonali, che poi è evidentemente rimasta nei cassetti dei designer di Nike, come se fosse stata respinta dagli stati maggiori dell’azienda, o dalla stessa Inter. Ne è uscito una specie di collage senza capo né coda. Peccato, perché Nike si è ripresa sulla scelta dei colori e sul bilanciamento, che sembravano invece finalmente azzeccati dopo numerose divise in cui l’azzurro era diventato blu, alle volte vicino al nero. Ora le tonalità rispettano la storia dell’Inter e restituiscono all’occhio dei tifosi una tavolozza di colori brillante e luminosa. Come è azzeccato il colore per la maglia da trasferta, annunciata ieri: un acquamarina “che prende spunto dall’eleganza milanese” e che, di per sé, è un bel colore, un bel tono, ben incorniciato dai bordi neri e dorati.
Un’altra maglia Nike che ha fatto discutere è quella della Roma. Al solito, verrebbe da dire. Perché i tifosi giallorossi sono diventati i “custodi” della tradizione della società: lo dimostra la lunga protesta per il ritocco dello stemma, con la dicitura “ROMA” che ha sostituito le iniziali “ASR”, mai davvero apprezzata. Nike ha però tradotto questa esigenza di custodire il passato con una retorica della Roma antica, infatti la nuova maglia è stata realizzata attorno al motivo delle saette in onore a Giove, un richiamo alla mitologia romana visto che Giove era il “re degli dei”. Al di là del risultato grafico della maglietta, che non è particolarmente efficace, questo culto del passato e della tradizione veicolato da Nike non coincide con la direzione in cui sta procedendo la società, cioè verso un futuro il più possibile slegato dal passato. Prova ne è l’esigenza di tagliare i rapporti con le bandiere come De Rossi e Totti e con il processo di internazionalizzazione degli uomini del club.
Se il gradimento dei prodotti oscilla, non si può dire altrettanto delle iniziative commerciali di Nike, che rimangono all’avanguardia. L’azienda americana sta istituendo alcune partnership speciali nel mondo del calcio sotto le quali nascono prodotti innovativi e di tendenza: l’esempio migliore è senz’altro l’accordo tra il “sottomarchio” Jordan e il Psg. Lo scorso anno, il club francese ha disputato la Champions League indossando divise con il marchio Jordan dal design minimalista e immediato, efficaci perché innovative e in grado di importare nel calcio un’estetica propria del basket, la quale a sua volta è assai vicina allo streetwear pop e hip-hop che convoglia un pubblico larghissimo. Così le divise da gioco di una squadra di calcio diventano veri e propri capi di abbigliamenti quotidiani, e il fatto che fossero griffate con la silhouette di Michael Jordan anziché con il celebre swoosh le ha rese un prodotto esclusivo, unico e irripetibile, una sorta di edizione limitata che incentiva negli appassionati l’esigenza di acquisto motivata dalla paura che il prodotto non sia più disponibile a stretto giro e, una volta terminate le scorte, diventerà introvabile. E infatti, nel giro di poche settimane tutto il merchandising di Jordan per il Psg era esaurito.
Il paradosso di Nike è che tanto risulta efficace la sua strategia comunicativa – oltre all’utilizzo del brand Jordan, i lanci commerciali delle divise sono tendenzialmente efficaci e innovativi, così come le pubblicità recentemente tornate su altissimi livelli (qui quella di anteprima ai Mondiali femminili) – quanto le sue divise “standard” non convincono più tutta la platea, perché alle volte sembrano non rispettarla e perché non contengono uno storytelling all’altezza delle aspettative. Tradotto: pesa l’assenza di un filo che leghi le maglie dello stesso brand e le renda riconoscibili a prescindere dalla presenza dello swoosh sul petto. In realtà, esiste (negli ultimi due anni è stata la banda che si snoda dal colletto sul retro della maglietta), ma forse è troppo banale, troppo scontato, e non ha alcun richiamo del brand. In questo Adidas è avvantaggiata perché propone le tre strisce su ogni maglia, un segno distintivo che collega i vari disegni. Ma anche qui, si può fare di meglio, e chi lo sta facendo è senz’altro Umbro, uno di quei marchi caduti in disgrazia ed ora artefice di prodotti di alto livello. Umbro sta utilizzando il suo stesso logo come pattern, declinandolo nelle varie maglie prodotte per diverse squadre in diversi modi: per la prima maglia degli Hearts è una trama di sfondo, per la seconda dell’Hull City diventa la decorazione di rilievo, per quella dello Schalke è la rifinitura.
Umbro veicola se stessa attraverso le maglie che produce, senza mai mettersi in primo piano a discapito della squadra. È un approccio anni ’90 che l’azienda di Manchester sta replicando oggi e sembra la chiave per trovare un equilibrio tra innovazione estetica generale, bisogno di visibilità di chi produce le divise e tradizione di chi queste divise le indosserà. In alcuni casi in cui la tradizione è meno stringente e il campo per la sperimentazione è di conseguenza più libero, lo sponsor tecnico ha il dovere di creare un’identità al club per cui lavora. Con Derby County e Hull City, Umbro si è meritata una standing ovation: vedere per salire sul carro. E percorrendo la stessa strada, stanno risalendo la china anche altri marchi dimenticati come Hummel e Uhlsport. Cosa che invece non sembra riuscire a fare Nike con la Roma, ad esempio: la prossima maglia, il cui tema è la saetta, non trova giustificazione nella storia del club né riferimenti collaterali alla città, e nemmeno è un pattern rintracciabile in altre divise della casa americana.
Anche Adidas sta azzardando innovazioni che scardinano la storia dei club. Il nuovo kit della Juventus è il risultato di un percorso di innovazione cercato anche dalla società, per cui Adidas dimostra una certa sinergia con i club per cui lavora. Per evitare di diventare anonima, invisibile, nascosta dietro i suoi stessi kit, l’azienda tedesca studia un pattern per le grandi nazionali e cerca di replicarlo nelle maglie dei club nell’anno successivo, per veicolare il mood scelto. È una strategia corretta, di successo, che sta riportando Adidas ai vertici per il valore dato al lavoro con i club di medio livello. Per i grandi, Adidas sta invece percorrendo la strada dello studio dei dettagli: basti osservare i kit di Manchester United e Bayern, lavori tono su tono, impreziositi da texture studiate ad hoc o ricorrenze incise ai bordi della maglietta. Solo il Real Madrid stride: il nuovo kit pare già visto, ha un sapore riciclato.
?? La nueva primera equipación 2019/20 está que ?.
? https://t.co/I6nlBSrnHH#HalaMadrid | #DareToCreate | @adidasfootball pic.twitter.com/OofrkllUV0— Real Madrid C.F.⚽ (@realmadrid) June 7, 2019
Chi sta pian piano consolidandosi nell’immaginario collettivo sono due marchi noti soprattutto nell’abbigliamento sportivo casual, che attraverso il calcio stanno conquistando sempre più rilevanza. Il primo è Puma, che ha virato verso un minimalismo estetico di grande efficacia. Lo dimostra il nuovo kit del Milan, pulito, essenziale, bello. Puma sta percorrendo una strada diversa, rischiosa ma in contrasto con le concorrenti, e quindi per questo centrato: sacrifica se stessa, mette il proprio marchio in secondo piano annullando tutto ciò che può ricondurre al brand, lasciando priorità all’immagine del club cliente, veicolandone un’immagine elegante e raffinata, la stessa immagine con cui Puma desidera apparire ora nei confronti del pubblico. Da marchio di prodotti per lo sport vuole trasformarsi in un brand di moda sportiva. La stessa strada la sta percorrendo New Balance, i cui kit del Liverpool rubano l’occhio per pulizia, cura dei dettagli (le texture, in particolare, sono un valore aggiunto) e soprattutto ricerca della tavolozza cromatica perfetta – che bel rosso, il rosso scelto da New Balance per i Reds, o il blu per il Porto, o il rigato dell’Athletic Bilbao. Il design delle magliette da calcio è un mondo sconfinato, se ne potrebbe parlare all’infinito senza mai annoiarsi, e diventerà sempre più rilevante in un calcio ormai pubblicizzato all’estremo e sempre più basato sull’immagine, con tutto ciò che ne deriva in termini di incassi da merchandising e sponsor. Aveva ragione quel videogioco nel darci la possibilità di costruire una maglietta personalizzata per la nostra squadra, soltanto nostra, e dunque bisognosa di una divisa ad hoc. E avevamo ragione noi nel perdere le ore cercando di crearne una bella, che rispettasse la storia immaginata del nostro club immaginario e che fosse idealmente appetibile ai nostri tifosi virtuali. Perché questo è il segreto di una divisa ben riuscita: deve posizionarsi esattamente a metà tra il romanticismo e il business, rispettando il passato del club e l’amore dei suoi tifosi, ma nel frattempo trascinando tutti verso il futuro.


