Storia dell’alchimia tra Guardiola e De Bruyne

Il centrocampista belga racchiude tutto ciò che contraddistingue l’ultimo approccio al gioco di Guardiola: un mix di calcio ragionato e calcio diretto. I due si somigliano per attitudine e visione: Pep adora i giocatori pensanti, Kevin gli allenatori che non smettono di indagare e insegnare il calcio

Da qualche tempo a questa parte, arriva un momento, nella stagione del Manchester City, che stabilisce se sia stata fallimentare o meno. È il momento in cui si trova a giocare il ritorno di una gara a eliminazione diretta in Champions League. O dentro o fuori, o vita o morte. Anche la cavalcata che sta portando il City alla conquista della Premier League sembra svuotarsi di significato non appena arriva il giorno del giudizio. Quest’anno, quello scoglio è stato già superato due volte. L’ultima due settimane fa, a Dortmund.

Josep Guardiola ha deciso di affrontarlo schierando una squadra senza prime punte di ruolo. Non di certo una novità per l’inventore del falso nove, abituato a sbertucciare la tradizione anche in partite di importanza capitale. Non ha sorpreso, dunque, vedere che l’uomo incaricato di occupare lo spazio di riferimento offensivo fosse, almeno in partenza, Kevin De Bruyne. Gli aveva affidato lo stesso compito l’anno scorso, nell’andata degli ottavi contro il Real Madrid, venendo premiato con una prestazione sontuosa del ragazzo belga.

È lui il principale depositario di quel magma di pensieri che fluttuano nella testa di Guardiola quando si tratta di preparare un piano gara. Anche in quest’occasione, De Bruyne non lo ha tradito. Ha giocato una partita sapiente, di totale controllo sul contesto di gioco, riempiendo e svuotando la zona centrale del fronte offensivo per porsi come appoggio o coprire posizione intermedie in cui associarsi con gli esterni Foden e Mahrez, liberando lo spazio per gli inserimenti di Gundogan. Tutto questo senza dimenticare di portare pericoli alla difesa del Dortmund, che ha fatto tremare con una traversa colpita nel primo tempo e con una sublime serpentina nel secondo.

A prendersi i titoli il giorno dopo è stato Phil Foden, per il gol che ha dato tranquillità al City e per la precocità con cui sta imponendo il suo abbagliante talento. Ma a guidare il gruppo che si è stretto in un abbraccio a Guardiola per festeggiare l’agognata semifinale – raggiunta per la prima volta in cinque anni -, è stato Kevin De Bruyne, sia all’andata che al ritorno. Il capitano, l’uomo al centro del gioco, l’anima di una squadra brillante e sofisticata, il fido scudiero di Pep.

Un ottimo modo per celebrare la firma sul nuovo contratto stipulato con i citizens, arrivata giusto la settimana precedente, e che lo legherà al club fino al 2025, sancendo un matrimonio decennale. «Dieci anni nella stessa squadra? Non è una cosa normale, ma alcuni giocatori non sono normali. Sono felice», ha commentato Guardiola. Gioia condivisa dallo stesso De Bruyne, che ha parlato della filosofia del club, e in particolare del suo allenatore, come motivo principale della sua decisione: «Mi permette di esprimermi al meglio».

La trattativa per il prolungamento è stata innovativa. De Bruyne, senza l’assistenza di super agenti, si è presentato in sede con un semplice file che metteva in relazione i suoi dati con le strategie societarie e il contesto tecnico del City, arrivando a dimostrare che la sua presenza fosse determinante per la competitività del club. Alla dirigenza è bastato dargli una rapida occhiata per convincersi a passargli il nuovo contratto e una penna stilografica.

Pochi giorni prima, Guardiola aveva fatto parlare di sé per la scelta di ingaggiare un gruppo di quattro astrofisici, d’un tratto dirottati dallo studio sui meccanismi di formazione delle galassie alle analisi in 3D sullo smarcamento di Sterling in una partitella di fine allenamento. È impossibile sapere se il tecnico catalano sia stato il consulente occulto del rinnovo di De Bruyne, ma il ricorso alla scienza con cui il belga ha aperto una nuova pagina del rapporto professionale tra club e giocatore, è l’ennesima dimostrazione della sintonia di vedute con il suo allenatore.

Seduto a quel tavolo con le sue statistiche in mano, a De Bruyne sarà scappato un sorriso. È buffo, in fondo, pensare che la strategia che gli ha permesso di arrivare a guadagnare 18 milioni di sterline a stagione non è dissimile da quella con cui José Mourinho, nel dicembre del 2013, gli stava brutalmente indicando la porta, illustrando come il suo apporto al Chelsea, in termini di numeri, fosse ridicolo se confrontato con quello dei suoi compagni di reparto Mata, Hazard, Willian e Shurrle, sebbene avessero giocato almeno il doppio delle sue partite. Già, Mourinho, la nemesi del suo futuro demiurgo Guardiola.

De Bruyne era arrivato al Chelsea un anno prima, nel 2012, per poi essere mandato in prestito al Werder Brema. Il suo talento era già luminoso. I suoi strappi, la sua facilità di calcio, la comprensione del gioco erano qualità già evidenti, a cui faceva da contraltare un carattere apparentemente difficile, ombroso, respingente. A 14 anni, arrivato all’accademia giovanile del Genk, vive con una famiglia adottiva. Durante la pausa estiva torna a casa e trova sua madre in lacrime, disperata nel dovergli comunicare che quella famiglia non lo avrebbe più accolto perché faceva fatica a interagire con lui.

A distanza di tempo, De Bruyne descriverà quegli anni come «i più solitari della mia vita». Ma la tendenza all’isolamento e le difficoltà relazionali non sono tratti circoscritti all’infanzia. In una recente intervista a Sky Sport, De Bruyne ha detto che guardare film da solo è tra le cose che ama di più fare. In una lettera a The Player’s Tribune, ha confessato di avere pochi amici intimi, dentro e fuori dal calcio, e che gli ci vuole molto tempo per aprirsi alle persone.

Lo strumento con cui De Bruyne rompe le barriere ed entra in contatto col mondo, è il calcio. Dentro il campo, il trasporto è totale, così come la sua apertura, che diventa anche verbale. Al primo allenamento con la prima squadra del Genk, a 17 anni, De Bruyne non risparmiava indicazioni ai compagni, anche ai più esperti, meravigliati dalla trasformazione di quel ragazzino con il volto color malva, che in spogliatoio era come un fantasma e sul campo correggeva come un professorino zelante scelte e movimenti di tutti.

Sarebbe passato come un fastidioso secchione da rimettere subito a posto, se solo le sue parole non fossero state sempre giuste, e i suoi piedi non facessero cantare il pallone. «Era frustato quando vedeva cose che gli altri non vedevano», ha detto l’ex capitano del Genk David Hubert. Era ossessionato dalla perfezione, e non faceva nulla per nasconderlo: «Non gli importava a chi doveva gridare per ottenerla».

Mentre un puerile De Bruyne dimostrava interesse e predisposizione per il lato cerebrale del calcio, a più di mille chilometri di distanza Pep Guardiola sedeva per la prima volta sulla panchina del Barcellona e iniziava la sua rivoluzione, mettendo in scena una sinfonia di tecnica, pensiero e associazione. Un filo invisibile collegava Genk alla Catalogna.

Il racconto del reale vuole che i due si incontrino nell’estate del 2016, quando Guardiola viene ingaggiato dal City, dove De Bruyne si era trasferito l’anno precedente. Ma anche in un mondo di fantasia, fatto della sostanza eterea delle affinità, il matrimonio tra De Bruyne e Guardiola era desiderabile si consumasse.

I due erano già stati vittime della legge dell’attrazione prima di trovarsi concretamente quando Guardiola, nell’estate del 2014, prova a portarlo al Bayern Monaco. De Bruyne declina per ripagare l’investimento fatto dal Wolfsburg sei mesi prima, e visti i 10 gol e 21 assist con cui nella stagione successiva arriva a vincere il premio di miglior giocatore di Germania, fa la scelta giusta, come spesso gli accade in campo. La stima che Pep nutre nei suoi confronti perdura, e finalmente, due anni più tardi, ha occasione di manifestargliela direttamente. «Kevin, ascolta, puoi essere facilmente uno dei primi cinque giocatori al mondo», gli dice al primo colloquio.

De Bruyne, che nel primo anno al City aveva già dimostrato di muovere passi veloci verso l’élite, rimane folgorato dal magnetismo di Guardiola, dal tono convinto di quel discorso: «Mi sentivo come se avessi dovuto dimostrargli che aveva ragione». Gli endorsement di Pep, che più volte nella sua carriera non ha nascosto infatuazioni per giocatori e allenatori, arrivano anche attraverso i media. Nel settembre del 2016, intervistato dalla BBC, proietta pubblicamente De Bruyne nell’Olimpo: «Messi è seduto a un tavolo da solo, ma al tavolo accanto, Kevin trova posto».

L’ammirazione che Guardiola non manca di sbandierare ha in primo luogo origine dall’incastro perfetto tra il suo credo calcistico e le caratteristiche tecniche di De Bruyne. Il belga rappresenta l’epitome in maglia azzurra dell’evoluzione della sua idea di calcio. Conserva i tratti associativi che stanno alla base del suo gioco di posizione, e al contempo sa esprimere un calcio verticale di estrema efficacia grazie alle sue conduzioni e ai suoi filtranti, che partono dal piede come colpi di frusta, e tracciano scie come corpi celesti.

De Bruyne racchiude tutto ciò che contraddistingue l’ultimo approccio al gioco di Pep: un perfetto mix di calcio ragionato e calcio diretto. Non a caso dal principio gli riserva il ruolo che affida solo a pochi eletti, quello di giocatore versatile da utilizzare in più zone del campo, e con compiti diversi a ogni partita (pivot, esterno offensivo, mezzala, sottopunta); un’investitura ben tradotta dall’ennesimo elogio pubblico che presto gli dedica: «È uno dei giocatori migliori che ho mai visto, in campo può fare assolutamente tutto».

La sintonia tra i due non è solo il risultato di questo connubio. A cementare la loro intesa, ci sono attitudine al lavoro e visione comune. Entrambi appartengono alla categoria degli eterni insoddisfatti, di quelli che anche a fronte di ottimi risultati si tormentano nella ricerca di una più profonda compiutezza. «Pep e io condividiamo una mentalità simile. È così stressato, tutto il tempo. Perché non gli interessa solo vincere. Vuole la perfezione».

Quando è sul campo, De Bruyne è sempre assorto in una dimensione di sottile malcontento. Sorride raramente, di entusiasmo non c’è traccia, la bocca è semiaperta come fosse alla continua ricerca di ossigeno, e i suoi occhi freddi sembrano sempre scrutare un orizzonte irraggiungibile. Non c’è molta differenza con le scene di Guardiola che a partita finita, dopo una vittoria, si ferma sul campo a parlare con un suo giocatore per correggere giocate e movimenti che non gli sono piaciuti.

È questa pedanteria condivisa il cuore del loro rapporto, che si sviluppa sull’idea che il calcio debba essere sempre oggetto di studio e di ragionamento. Pep adora i giocatori pensanti, Kevin gli allenatori che non smettono di indagare il calcio e insegnarlo a ogni allenamento. Quel ragazzino che a 17 anni dava indicazioni a tutti i compagni, ha incontrato l’allenatore che rappresenta al meglio la sua meticolosità.  Quel giovanotto cupo, con cui non si riusciva a interagire e che esce dal guscio solo grazie al calcio, ha trovato realizzazione nell’incontro con Guardiola, che di calcio nutre la sua anima.

Quell’allenatore che sin dagli albori vuole giocatori che abbinino qualità e conoscenza, in cerca della chimera della perfezione, ha incrociato sulla sua strada un ragazzo che si alimenta di questi tratti. Quel tecnico che è sempre stato attratto dall’intelligenza e dai caratteri sobri e schivi (Messi, Iniesta, Kimmich), ha incontrato un giovanotto belga che conosce quattro lingue e si presenta così: «Parlare di me è praticamente la cosa più difficile del mondo. Calcio?Potrei parlarne per ore».

Il risultato concreto di quest’affinità intellettiva e attitudinale è sotto gli occhi di tutti. Oltre ai successi ottenuti insieme (due Premier League, due Community Shield, quattro coppe di Lega – l’ultima domenica scorsa -, una Coppa d’Inghilterra), con Guardiola, De Bruyne è diventato uno dei migliori centrocampisti al mondo, forse, in questo momento, il migliore in assoluto. Sotto di lui non ha vissuto solo una continua evoluzione tecnica e tattica, non si è limitato ad accrescere la capacità di leggere il gioco ed essere un infaticabile produttore offensivo, ma ha acquisito un’aura diversa, come ha dichiarato anche il padre di Kevin: «Penso che Pep Guardiola abbia aggiunto una dimensione extra a Kevin. Lo ha spinto nel ruolo di leader. Gli ha dato più responsabilità perché sapeva che le sue spalle erano abbastanza forti per sopportarlo».

Di contro, per Guardiola, De Bruyne è l’emissario delegato di portare sul campo le sue idee e trasferirle ai compagni. Colui che meglio incarna la sua filosofia, che meglio riflette il suo nuovo sguardo sul gioco.

Un rapporto di fiducia fatto di scambi intimi e continui: Guardiola che lo chiama in panchina e gli parla con una mano poggiata sulla spalla; Guardiola che incrocia il suo sguardo in campo e con un semplice gesto gli passa un messaggio; Guardiola che non gli nega mai abbracci e altre tenerezze.

L’alchimia tra due persone è un’intesa che trascende la ragione. Quella tra Guardiola e De Bruyne, oscilla tra razionale e irrazionale, tra logica e chimica. Qualunque sia la sua natura, sembra davvero una cosa preziosa.

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